Schopenhauer, analisi e confronto dell’autore con il pensiero filosofico e pratico della cultura indiana .

A cura di Alessandro Nenna

Premessa

Nel testo vengono chiariti alcuni concetti del pensiero della cultura vedica e particolarmente di come gli antichi Indiana descrivevano la funzione della mente. Tale analisi ci permette di comprendere meglio il pensiero dell’autore. Lo stesso  Schopenhauer raccomandava l’approfondimento di tale studio.

Nella seconda parte viene mossa una critica all’autore, perché alcuni concetti della cultura, soprattutto buddhista, non erano stati ben approfonditi. Il motivo del lavoro è quello di  far comprendere che nei testi di Shopenhauer,  alcuni concetti come quelli di  “ascesi” e  “compassione” , sono stati mal compresi. Nel mondo orientale alcuni sentimenti come “non attaccamento”, il non Sé,  il tema dell’impermanenza,  non esprimono affatto sentimenti di nichilismo o di pessimismo ma al contrario sono elementi preziosi per la liberazione e l’illuminazione dell’uomo.

Introduzione

«Legga, ora, anche i meravigliosi scritti della sapienza indiana, che le raccomando caldamente, e così lei avrà conosciuto tutto quello che il lettore dovrebbe sapere per capire appieno le mie opere [...] le raccomando soprattutto, per uno studio più approfondito, le Upanishad, che può trovare, tradotte in latino da Anquetil-Duperron, nella biblioteca civica» (A. Schopenhauer, Colloquio con C. G. Beck, marzo 1857)

Quello sopra riportato è l'invito che Schopenhauer era solito rivolgere a chiunque volesse veramente avvicinarsi alla sua filosofia: egli riteneva infatti che essa fosse comprensibile solo tramite indispensabili riferimenti alla spiritualità orientale. Purtroppo, la manualistica liceale ed universitaria, tranne pochissime eccezioni, non ha seguito i consigli di Schopenhauer, e ha preteso di ricostruirne il punto di vista, senza conoscere le fonti orientali del suo pensiero. Con quali risultati?

Gli esiti sono a dir poco deludenti, per i seguenti motivi:

1) i manuali che non riportano le nozioni orientaleggianti di Schopenhauer, o che le riportano in modo troppo approssimativo, restituiscono il suo pensiero in modo gravemente monco e riduttivo;

2) tali manuali (e sono la stragrande maggioranza), anche quando si limitano ad esporre nozioni che ritengono "occidentali", in realtà ne deformano più o meno fortemente il significato, proprio perché non tengon conto degli influssi orientali che hanno agito in Schopenhauer, nel mentre recuperava concetti solitamente attribuiti a Platone, a Leibniz, a Kant etc.

A tal proposito, forniremo alcune esemplificazioni ricavandole dagli errori e dagli equivoci presenti in troppi manuali di Filosofia. Nel contempo, è doveroso segnalare che un testo come quello di E. Balducci, , è l'unico tra i testi didattici a sottrarsi a tali limitazioni, proprio perché padre Balducci aveva una conoscenza apprezzabile anche dell'Oriente, che gli permise di meglio focalizzare il pensiero di Schopenhauer e di altri autori relazionati in qualche modo alle culture extraeuropee (E. Balducci ha aperto una via importante che, a livello di manualistica, è rimasta deserta: con grave pregiudizio per la formazione non solo degli allievi, ma anche dei docenti di Filosofia, che quasi sempre forniscono un insegnamento unilaterale ed eurocentrico, per dirla con lo stesso Balducci).

 

I CAPITOLO

 

Contro il "miracolo greco" e l'eurocentrismo

«Voi andaste colà come maestri
       E ne ritornaste come discepoli
      Dell'ascoso senso
     Là caddero per voi i veli
»

Con questi versi, Schopenhauer deride i messaggeri della cultura europea, piombati in Oriente per civilizzare e per convertire, e rimasti invece surclassati dalla superiorità della spiritualità orientale. Occorre riconoscere che Schopenhauer è stato tra i primi, nell'Europa moderna, a mettere radicalmente in discussione la tesi del "miracolo greco", della Grecia antica come culla della civiltà. Basti pensare che, secondo Schopenhauer, perfino Pitagora risulterebbe essere un allievo dei saggi indù:

«Secondo Apuleio, Pitagora sarebbe addirittura giunto sino in India, e sarebbe stato ammaestrato dagli stessi brahmani. Di conseguenza, io credo che la filosofia e la conoscenza di Pitagora, certo altamente apprezzabili, non sono consistite tanto in ciò che egli ha pensato, quanto in ciò che egli ha imparato.»
(Frammenti sulla storia della filosofia, 2, in Parerga e paralipomena).

In polemica con le tesi più diffuse, favorevoli ai Greci e soprattutto all'Occidente, Schopenhauer ribatte invece che l'India è la "culla del genere umano" (Della religione, in Parerga e paralipomena, XV, 174), verità non riconosciuta dagli eruditi del tempo, per un misto di arroganza e ignoranza, dato che in realtà essi poco o nulla sapevano dell'Oriente. Vi erano pero delle eccezioni, e tra queste ricorderemo Anquetil-Duperron, F. Schlegel, W. Jones, F. Mayer.

In ogni caso, Schopenhauer va considerato un quasi-precursore, ed avendo a disposizione fonti incomplete e imperfette, ha incontrato un sovrappiù di difficoltà nell'affrontare certe dottrine orientali, e a volte ne ha travisato aspetti non secondari. Dato il contesto, ciò era forse inevitabile, e comunque possiamo riconoscergli le attenuanti del caso.

Nonostante alcuni incidenti di percorso, egli ha contribuito in modo vigoroso a denunciare i processi in atto di occidentalizzazione del mondo, valorizzando nel contempo contenuti notevoli della spiritualità orientale, misconosciuti in Europa. In essi egli si e fortemente identificato, spingendosi a scrivere:

«Le Upanishad sono l'emanazione della più alta saggezza umana [...] da ogni pagina ci vengono incontro profondi pensieri, originali e sublimi, mentre un'elevata e sacra serietà aleggia su tutto. [...] È la lettura più profittevole ed edificante che sia possibile a questo mondo: essa è stata la consolazione della mia vita e lo rimarrà fino alla mia morte»

(Alcune cose relative alla letteratura sanscrita, in Parerga e paralipomena, XVI, 185-184).

Tra oriente e occidente: nozioni da meditare, seguendo Schopenhauer

Il mondo come rappresentazione (v. Maya)

Nell'itinerario che conduce da Cartesio a Kant, l'età moderna tende a rinchiudersi totalmente nella "rappresentazione", escludendo (o quasi) la possibilità di uscirne. L'Idealismo, estremizzando il percorso della modernità, finirà per assolutizzare la "rappresentazione razionale", sostenendo l'appiattimento del Reale sulla Rappresentazione (tale posizione filosofica è ben sintetizzata nella celebre formula hegeliana "tutto ciò che è reale è razionale", detestata da Schopenhauer).

Contro l'Idealismo, Schopenhauer recupera a modo suo la distinzione kantiana tra rappresentazione fenomenica e cosa in sé, e quella platonica tra "ombre della caverna" e livelli ulteriori di realtà. Seguendo in parte Kant, sottolinea che le rappresentazioni mentali sono sostanzialmente costruite tramite Spazio, Tempo, Causalità. Tuttavia, la "scoperta" kantiana è tale solo per gli occidentali moderni: infatti ciò era ben noto già agli antichi indù. Nelle Upanishad antiche, è ben spiegato che Tempo, Spazio e Causalità danno origine alle rappresentazioni fenomeniche, cioè a Maya (almeno 2.000 anni prima di Kant!).

Consapevoli di ciò, i saggi indù avevano anche additato la via per squarciare il velo di Maya, cioè per spezzarne le catene imprigionanti, che legano al mondo "illusorio" delle rappresentazioni razionali. Insegnamenti di tale forza non si ritrovano invece nell'Occidente moderno, o comunque vengono sistematicamente emarginati: il che confermerebbe la mediocrità della nostra civiltà, incapace di spingersi oltre l'orizzonte ristretto di Maya, sotto il dominio della Volontà.

Il principio di ragion sufficiente e l'intelletto intuitivo (v. Manas e Buddhi)

Per la mente vincolata ad elaborare rappresentazioni razionali, vale sempre il principio secondo cui "tutto ciò che e deve avere una causa, cioè una ragione, altrimenti non sarebbe". Tale postulato razionalistico è ampiamente discusso da Schopenhauer già nel periodo della laurea in Filosofia (v. l'opera fondamentale, poi rivisitata e corretta, Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente). Ivi Schopenhauer, criticando i «professori confusionari» dei suoi tempi, propone di distinguere tra Ragione e Intelletto in questi termini:

«Sempre e dappertutto, infatti, è indicato come intellectus [...] la facoltà immediata e più intuitiva [...] le parole intellettuale e razionale sono state sempre perfettamente distinte, come manifestazioni di due capacità mentali totalmente diverse e lontanissime» (V, 34).

Scrivendo così, Schopenhauer sembra distinguere le due facoltà seguendo la tradizione platonico-aristotelica; in realtà, la asseconda solo in parte, perché dipende troppo da Kant, il cui influsso si fa sentire. Infatti la spontaneità dell'intelletto non coincide con la visione intuitiva del nous platonico, ma si riduce al fatto che l'intelletto, spontaneamente (cioè senza riflessione) opera secondo la legge di causa-effetto (cioè secondo il principio di ragion sufficiente), elaborando rappresentazioni che hanno un valore primario rispetto alle altre di cui subito diremo. In questo contesto la ragione in senso stretto avrebbe un valore secondario, poiché essa opera per riflessione, astraendo concetti dalle precedenti rappresentazioni, che utilizza per collegare, dedurre, programmare, calcolare in modo logico-formale.

Intelletto e ragione, così intesi, cioè con ruoli in realtà non abissalmente diversi, nonostante la premessa iniziale, stanno alla base delle varie rappresentazioni. Come vedremo, le varie rappresentazioni in definitiva sono funzionali alle esigenze pratiche della Volontà egoica, e non possono ovviamente condurre oltre il mondo fenomenico (oltre il velo di Maya).

Detto questo Schopenhauer, andando stavolta oltre Kant, ammette la possibilità che l'Intelletto possa purificarsi e svincolarsi dall'Egoicità, e possa quindi pervenire ad una Visione non-condizionata (quindi contemplativa, e con portata non semplicemente fenomenica): qui egli recupera un aspetto decisivo della tradizione pitagorico-platonica e di quelle orientali. Infatti la fondamentale distinzione, che più c'interessa, fra mente (intelletto-ragione) asservita alla Volontà egoica e mente libera e incondizionata (intelletto contemplativo) corrisponde sostanzialmente alla distinzione tra Manas e Buddhi, così come la troviamo nelle Upanishad e negli innumerevoli commentari successivi.

A questo punto diviene importante comprendere le correlazioni funzionali tra le varie strutture della mente secondo la psicologia vedica:

Ø  Mente esterna (Manas): comprende la mente sensoriale e quella emozionale superficiale.

Questa svolge le funzioni esterne è la via attraverso cui le impressioni esterne proveniente dai sensi possono entrare nella coscienza dell’individuo. Tale processo non è né automatico ne inevitabile. Le stimolazione esterne che costituiscono un vero e proprio “bombardamento” sensoriale e concettuale possono soltanto rimanere in superficie a meno che non venga a loro dato il permesso di entrare in profondità.

Ø  Mente intermedia (Buddhi): funge esattamente da “portiere”, ossia è la struttura che decide quali stimolazioni esterne possono avere accesso alla coscienza profonda e quali no. Il funzionamento puro di Buddhi (l’intelligenza profonda) e perciò decisivo per determinare ciò che ci penetrerà a fondo e ciò che non ci colpirà affatto. Il meccanismo intellettivo che consente alle stimolazioni esterne e alle emozioni superficiali di entrare in profondità è dato dalla nostra reazione ad essa in maniera dualistica. Quando la nostra risposta alle stimolazioni si pone in termini di amore/odio, simpatia/antipatia,  accettazione/rifiuto, le stimolazioni possono entrare. Solo l’intelligenza profonda può consentirci l’osservazione distaccata e quindi  la libera decisione di cosa lasciare entrare e cosa no. L’intelligenza profonda si qualifica dunque come una struttura di osservazione distaccata e, per ciò stesso, correttamente valutativa. Quando buddhi non è lucida finisce col razionalizzare simpatie e antipatie e diviene incapace di svolgere le funzioni di filtro.

Ø  Mente intermedia (citta): è lo spazio interiore in cui vengono depositate, sotto forma di energie- memoria profonda, tutte le stimolazioni e le esperienze che Buddhi ha lasciato entrare. Queste energie sedimentano in forma di memorie inconsce (Samskara) e tendenze (Vasana), e si comportano come “semi” in opportune circostanze, determineranno inesorabilmente l’individuo a compiere certe azioni. Per la psicologia vedica tali memorie coscienziali profonde non sono soltanto il frutto della vita attuale dell’individuo, ma tutte le sue vite precedenti. Citta è pura e altamente vulnerabile, perché consiste nell’apertura profonda del cuore ed è dunque la sede delle emozioni profonde, quelle che determinano l’orientamente e il “mood” permanente della vita di un individuo. Ciò che entra in Citta diventa “nostro” ad un livello di vera e propria fusione con il nostro essere.

Le funzioni di coordinamento dell’Ego (Ahamkara) verranno descritto nel pararafo successivo.   

Il principium individuationis (v. Ahamkara)

Tale principio è sempre spontaneamente operante nella costruzione delle rappresentazioni razionali. Sintetizzando con qualche ridondanza, possiamo dire che gli elementi portanti di qualsiasi rappresentazione sono: spazio, tempo, causalità, principio di ragion sufficiente, soggetto, oggetto, principium individuationis (come si può intuire, tra essi non vi è rigida demarcazione ed anzi tendono a sovrapporsi o comunque si richiamano vicendevolmente). Appena entra in opera il principium individuationis, il "tutto unico" del reale viene immaginato come frantumato in una miriade di enti e accadimenti, in funzione delle esigenze pratiche dell'Ego, che si contrappone a ciò che viene considerato estraneo all'Ego stesso.
In ultima analisi, la separazione tra soggetto e oggetto è la madre di tutte le altre separazioni: il soggetto infatti deve pensare l'oggetto (cioè la parte del reale valutata come "oggetto") come asservita o asservibile alle istanze dell'Ego (cioè alla parte privilegiata del reale valutata come "soggetto"). La ragione, in quanto subordinata alla Volontà egoica, è uno strumento che ha il compito di elaborare strategie capaci di rafforzare il dominio del soggetto sull'oggetto; direzionata nella prospettiva del "principium individuationis", essa escogita espedienti per incrementare la volontà di potenza. Le celebrate istituzioni che qualificano la civiltà appartengono esse stesse a tali "espedienti" della ragione; ma ormai, nel 1800, un ruolo sempre più decisivo viene assunto dalla scienza e dalla tecnica: esse stanno all'uomo come gli artigli alla belva, ma con un terribile ed inquietante sovrappiù di efficacia.

Di fatto, il principium individuationis attraversa, con diversa intensità, tutti i percorsi della ragione e quindi della civilizzazione dall'antichità alla modernità, giustificando in un modo o nell'altro tutte le attività manipolative del soggetto nei riguardi dell'oggetto. Schopenhauer dipinge con grande maestria l'ordinario atteggiamento pragmatico degli umani nei confronti di ciò che essi si rappresentano come il "mondo": tale rappresentazione è governata dal principium individuationis, cioè dall'Ahamkara, che è così descritto nei testi orientali:

«Ciò che fa l'io, o il senso dell'io. Principio di individuazione che genera il senso dell'egoità e della distinzione riferendo l'esperienza e il suo contenuto ad un io particolare; è dunque associato al manas (mente empirica-distintiva-analitica). [...] Costituisce la coscienza nel suo stato di individualizzazione [...] Questa coscienza dà nascita alla nozione dell'io (aham)»

(v. Glossario sanscrito, Ediz. Asram Vidya).

Tuttavia Schopenhauer, benché ufficialmente considerato un "pessimista", ammette la possibilità che si possa trascendere il principium individuationis e il "senso dell'io".

Completiamo adesso la divisione della mente secondo il principio della psicologia vedica descrivendo la funzione dell’ego correlato con ciò che è descritto nel capitolo:

Le funzioni di coordinamento dell’Ego (Ahamkara): la funzione dell’Ego è quella di consentire l’identificazione dell’individuo storico con le funzioni della mente e con le azioni che esse pongono in essere. Grazie all’Ego possiamo dire “io sento X” oppure “io provo questa emozione”, ed anche “io penso che”. La funzione dell’Ego da una parte è essenziale per consentire il processo di individuazione che rende possibile un’efficiente vita incarnata, ma, al tempo stesso, secondo la psicologia vedica, è la radice stessa di tutti i problemi e i blocchi psichici, perché oscura la vera natura dell’individuo che consiste nell’essere spirituale (Atman). In sostanza tutto l’obbiettivo delle pratiche indiane, quelle ascetiche e buddhiste e quello di arrivare a cogliere che l’Ego non è una realtà, ma solo una funzione utile per svolgere certi compiti, ma non esprime affatto ciò che “io sono veramente” ma solo una funzione psichica che l’individuo dovrebbe utilizzare quando serve per interfacciare  con il mondo, ma abbandona subito dopo. Dato che l’Ego lega l’individuo alle funzioni mentali e alle azioni, esso è la struttura che crea dipendenza delle impressioni e delle cose esterne e in cui si cristallizzano le memorie sociali.

Dal principium individuationis al "Tat Tvam Asi": verso la compassione cosmica

Il superamento della Volontà è governato da un principio abissalmente diverso, che un'antica saggezza ha racchiuso nella formula sacra Tat Tvam Asi, della quale Schopenhauer recupera solo ciò che gli preme in funzione del superamento dell’aspetto egoico. Alla lettera, infatti, la formula significa "Tu sei Quello", dove per "Quello" le Upanishad e i grandi commentatori (v. Shankara) intendono il Brahman nirguna (senza qualità distintive-limitative).
Schopenhauer, pregiudizialmente allergico a tutti i termini che richiamano concezioni teologiche, mette tra parentesi il Brahman e riutilizza tale formula unicamente per sottolinearne la valenza cosmica e unitiva: detto altrimenti, egli insiste sul fatto che la sacra sentenza suggerisce che in tutti gli esseri, benché fenomenicamente (cioè esteriormente) diversi, è depositata un'unica essenza, che tutti li accomuna, umani e non. Questa consapevolezza consente di sperimentare il nobile sentimento della Compassione cosmica, che si pone come alternativa non solo al principium individuationis, ma anche alla morale razionale kantiana (Schopenhauer infatti mostra grande rispetto per Kant, ma lo critica decisamente proprio sul tema morale). Schopenhauer esalta la superiorità della Compassione cosmica praticata dagli asceti buddhisti e indù, nel mentre denuncia i limiti antropocentrici e le vacuità morali dell'Occidente, che ha come riferimento, secondo i casi, la morale razionale, la pretesa "dignità dell'uomo", una religiosità di tipo personalistico-antropocentrico, ... con tutti i difetti che ne derivano.

Nel contesto di una visione "cosmocentrica" e "non-umanistica", si possono meglio apprezzare le toccanti pagine dedicate da Schopenhauer al mondo non-umano, e le serrate critiche alla manipolazione tecnico-scientifica, con particolare riguardo alla vivisezione, praticata anche ai suoi tempi.

Nirvana

Nirvana, letteralmente, ha il significato di "estinzione", "spegnimento" del soffio, del desiderio, della brama (nell'Induismo e nel Buddhismo). In Schopenhauer, l'esperienza nirvanica comporta l'estinzione della Volontà, e quindi dell'io particolare che è una proiezione della Volontà universale. Come si può notare, la posizione di Schopenhauer non contrasta con le dottrine orientali: siamo in presenza di una formulazione leggermente diversa, che non intacca l'essenziale. Nel contesto di quanto abbiamo rapidamente passato in rassegna, il Nirvana non comporta alcun significato negativo: tale esperienza realizzativa implica infatti lo spegnimento della Volontà, che per Schopenhauer è somma negatività. L'estinzione del "negativo" non può che essere una realizzazione totalmente "positiva". Il Nirvana infatti non conduce al Nulla assoluto, come pretendono alcuni interpreti disinformati: conduce invece alla realizzazione della suprema liberazione.

Ascesi, liberazione e "nulla"

Alcuni autori, per sostenere che il percorso ascetico delineato da Schopenhauer sfocia nel Nulla, estrapolano dalle sue opere alcune espressioni che sembrano confermare tale lettura. In questo caso, si prende di mira soprattutto la parte conclusiva del Mondo come volontà e rappresentazione, laddove effettivamente si trova scritto:

«[...] con la soppressione della volontà, vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere senza meta e senza posa [...] nel quale e mediante il quale il mondo consiste; soppressa la varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto intero il suo fenomeno; poi finalmente anche le forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non resta invero che il nulla» (IV, 71).

L'intenzione di Schopenhauer è limpidissima: poiché tutto il mondo come "rappresentazione" è una proiezione della Volontà, spenta questa svanisce anche la rappresentazione con tutto ciò che la caratterizza: la separazione soggetto-oggetto, le relazioni spazio-temporali, le innumerevoli forme (cioè gli enti). In una parola, svanisce ciò che i più chiamano il "mondo": e per quelli che ad esso sono attaccati, "toglierlo" vorrebbe dire precipitare nel Nulla. Ma questo è solo il punto di vista dei non-asceti, dei non-realizzati, che danno al "mondo come rappresentazione" e al "mondo come volontà" un valore assoluto.
Ma per gli asceti "liberati in vita" (v. jîvanmukta), «in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla» (così si conclude Il mondo come volontà e rappresentazione).

L'asceta che ha portato al tramonto il Volere e le sue manifestazioni, conosce il valore relativo (v. maya) degli enti e si svincola dalle catene imprigionanti del "mondo": così facendo, consegue la Liberazione, sperimentando interiormente una dimensione assolutamente positiva, che è

«quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto [...] e un completo e certo Vangelo»

(Il mondo come volontà e rappresentazione, IV, 71).

Tale dimensione totalmente positiva e pacificante, aggiunge Schopenhauer, la possiamo chiamare nirvana, oppure «estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell'oggetto, e inoltre è accessibile solo all'esperienza diretta, né può essere comunicato ad altri». Nei testi indù, analogamente, si parla di "Conoscenza per identità", di "Conoscenza realizzativa" (v. jnana), proprio per distinguerla dalle cognizioni di ordine meramente "razionale", che presuppongono un "oggetto" di fronte al "soggetto".

Tale conoscenza "per identità" non conduce all'identificazione assoluta nelle forme, cioè negli enti, perché ciò comporterebbe una limitazione (essendo ogni ente finito-limitato); tale esperienza realizzativa è decondizionante perché conduce oltre le forme limitative, quindi verso l'Illimitato, verso il Sovraformale, verso Atman-Brahman nirguna (senza forma, incondizionato) di cui trattano le Upanishad, verso l'Uno aformale di Plotino e del Neoplatonismo. Occorre ammettere che Schopenhauer, il quale asceta e santo non era (e lo sapeva), è riuscito a descrivere egregiamente il senso dello itinerario ascetico, proprio aiutandosi con i testi orientali a lui accessibili. La sua forte ripugnanza per le teologie personalistiche, ha comportato la conseguenza di indurlo al sospetto anche verso le concezioni "impersonali" del divino, sulle quali non ha meditato adeguatamente, penalizzando così certi aspetti della sua elaborazione: eppure, non crediamo di esagerare dicendo che in ultima istanza la sua filosofia appare tacitamente direzionata verso una dottrina del divino "impersonale", che ne costituisce il vertice (e che si pone oltre la contrapposizione ateismo-religione).

Detto in sintesi: lungi dall'essere l'esperienza del Nulla, che cos'è il Nirvana, se non l'esperienza del divino impersonale e aformale (anche se Schopenhauer non ha utilizzato questo linguaggio "teologico").

 

 

 

 

II CAPITOLO

            Buddha e Schopenhauer

Attorno della compassione (Karuṇā), è necessario rinviare ancora una volta ai modi e ai limiti in cui Schopenhauer venne a contatto, in generale, con il pensiero indiano e, in particolare, con gli insegnamenti del Buddha. Nel caso del Buddha queste limitazioni vanno fatte risalire alla mancata comprensione o ignoranza (avidyd) del fatto che ogni realtà (dhamma) è “priva di sé” (anattà) priva, cioè, di autoconsistenza e autosufficienza. Nel caso di Schopenhauer la conoscenza limitata è quella che si affida esclusivamente al principium individuationis e che, quindi, fornisce l'immagine del mondo solo come rappresentazione.' Ebbene, come per il Bud­dha la conoscenza della realtà in quanto anatra è condizione ne­cessaria per la pratica della compassione, così per Schopenhauer la conoscenza della realtà in quanto manifestazione dell'unico e universale Wille zum Leben è condizione necessaria per accedere a una vita vissuta eticamente e non solo “moralisticamente” in base a qualche precetto o dogma particolare..

Ciò detto, vanno tuttavia posti in rilievo i caratteri diffe­renzianti che distanziano la posizione assunta da Schopenhauer nei confronti del Mitleid da quella assunta dagli insegnamenti del Buddha nei confronti di Karuṇā. Innanzitutto vanno fatte delle precisazioni a proposito di Karuṇā: in quanto sinonimo di compassione, essa viene troppo spesso intesa come termi­ne e concetto che esaurirebbe il comportamento etico. Le cose non stanno propriamente così. Innanzitutto, in generale, l'eti­ca buddhista non può prescindere dal riferimento all'Ottuplice Sentiero che costituisce la Quarta Nobile Verità, e alle altre tre Nobili Verità che ne costituiscono le premesse logiche e pra­tiche. In secondo luogo, più in particolare, Karuṇā è solo una delle “Quattro Dimore Divine” (Brahma Vihdra), così denomi­nate perché chi pratica queste “virtù” ha la mente “a casa”, pacifi­cata: le altre tre sono Upekkhd (equanimità), Metta (benevolenza non discriminante) e Mudità (gioia altruistica). La dinamica di. e tra queste quattro “dimore è assai interessante, al punto che merita una breve digressione. Di Metta si è già detto: essa è la benevolenza senza discriminazione, ossia una benevolenza verso tutti gli esseri. Karuṇā, la compassione, è la capacità di partecipare ai dolori altrui: in tal senso corrisponde al termine e al concetto tedesco di Mitleid, anche se è da precisare che essa comporta la capacità di partecipare non solo ai dolori altrui pre­senti, ma anche a quelli passati e futuri. In base a questa capacità si è in grado di avere compassione addirittura per qualcuno che, al momento presente, ci odia e ci danneggia, pensando che egli soffre per il suo stato d'animo attuale e soffrirà ancor di più per le conseguenze future di questo stato d'animo. Muditd è invece la gioia altruistica,6 la . capacità di partecipare alle gioie altrui. Costituisce in pratica l'opposto dell'invidia, e consente di di­minuire in modo deciso il senso di proprietà dell'io_ Upekkhà, l'equanimità, equivale a “imparzialità”, “non discriminazione”, sia nei confronti degli esseri, sia nei confronti degli stati d'animo, dei comportamenti, dei sentimenti, delle opinioni, delle idee. Ma non coincide con l'indifferenza, in quanto consente di co­gliere le distinzioni senza, però, condurre a un comportamento discriminante. In tal senso è simile a Metta, alla benevolenza verso tutti gli esseri, anche verso i più odiosi in quanto ven­gono riconosciuti come prede dell'odio.” Ma Upekkhd funziona soprattutto come equilibratore.

 

Come si può ben vedere da questa pur schematica rappresen­tazione, il significato che assume Karuṇā all'interno dell'etica buddhista è assai più complesso di quello che presenta Mitleid all'interno dell'etica di Schopenhauer: tale significato si costitui­sce infatti, nella dottrina buddhista, in rapporto ad altre tre vir­tù”, mentre per il filosofo tedesco Mitleid è semplicemente l'op­posto dell'egoismo dal quale lo separa, come grado intermedio, solo la giustizia in quanto capacità di qualcuno di riconoscere anche nell'altro l'universale volontà di vivere e, di conseguenza, di astenersi dal commettere ingiustizia, dal «fare ingiuria». Ma non è solo questione di quantità: Karuṇā si differenzia da Mitleid non solo perché si coordina ad altre tre virtù, ma soprattutto perché si inserisce in un itinerario di perfezionamento, laddove, invece, Schopenhauer si limita a constatare la rarità, l'ecceziona­lità dei comportamenti compassionevoli_ In generale, cioè, per il Buddha tutti gli individui hanno la capacità - in potenza e in misura diversa - di procedere dall'ignoranza (avidyà) alla sa­pienza (prajnhi), ossia di diventare dei “buddha”, degli illuminati; mentre per Schopenhauer solo pochissimi riescono a liberarsi dal giogo della conoscenza basata sul principium individuationis e a cogliere, con un'intuizione privilegiata, l'essenza di ogni realtà costituita dal Wille zum Leben. In particolare, la possibilità di. insegnare la via della verità e della compassione è ricordata in un passo dell'Itivuttaka:

Per Schopenhauer la virtù rarissima della compassione è una delle modalità fondamentali per “negare la volontà di vivere”, in quanto comporta una riduzione massima dell'egoismo che è una delle principali manifestazioni della volontà di vivere: ed è per questo che può essere associata all'ascesi, che egli intende come «il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la mace­razione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazio­ne della volontà». L'orizzonte tracciato dagli insegnamenti del Buddha non presenta per nulla i colori cupi di questa prospettiva disegnata da Schopenhauer. Innanzitutto, in generale, il Bud­dha, programmaticamente e sistematicamente, sostiene che è da evitare ogni posizione nichilistica e addirittura smentisce esplicitamente coloro che vogliono presentarlo come un sosteni­tore di tesi nichilistiche:

 

alcuni asceti e brahmana mi hanno rappresentato erroneamen­te, senza fondamento, vanamente e falsamente nel modo seguen­te: «l'asceta Gotama è uno che svia dalla retta strada; egli insegna l'annichilirnento (accheda), la distruzione, la non esistenza (vibhava) di un essere vivente.» ... O monaci, in passato e ora, quello che io insegno è una cosa soltanto: la sofferenza (dukkha) e il superamento della sofferenza (dukkhaniroda)”

 

Ebbene, una delle cause fondamentali della sofferenza è per il Buddha prorio la «brama per la non-esistenza o per l'anni­chilimento», la quale tormenta tanto colui che coltiva tecni­che di automortificazione quanto colui che vuole addirittura sopprimersi.

 

 

A questo proposito, Schopenhauer mostra di non sapere o di dimenticare che uno dei caratteri generali più “rivoluzionari” dell'insegnamento del Buddha è dato proprio dalla sua scelta di un «cammino di mezzo» (majjhirna patipada) fra ogni estremo, tanto che il famoso discorso con cui il Buddha inaugura i suoi quarantacinque anni di insegnamento si apre in questo modo:

 

O monaci, coloro che hanno abbandonato la vita mondana non devono indulgere ai due estremi Quali sono questi due estremi? Un estremo è dedicarsi al godimento dei piaceri sensuali: questo comportamento è infimo, villano, volgare, ignobile e vano_ L'altro estremo è il dedicarsi alla mortificazione di se stessi: questo com­portamento è doloroso, ignobile e vano.”

 

Schopenhauer, invece, assimilando l'etica buddhista alle forme più estreme di quella hindú, parla di «volontaria penitenza e ter­ribile, lenta macerazione, per venire alla compiuta mortificazio­ne della volontà» Al contrario di quanto ritiene Schopenhauer, troviamo scritto nella più famosa biografia del Buddha.

 

Non vi è dunque traccia, negli insegnamenti buddhisti, di alcun disprezzo del corpo, o, addirittura di intenzioni di mortificarlo; anche se, d'altra parte, non sono presenti nemmeno tracce del contrario, ossia di un'esaltazione del corpo: infatti, per il Buddha, entrambi i casi sarebbero nient'altro che forme di attaccamento e, in quanto tali, cause di sofferenza. Questa finalità degli inse­gnamenti del Buddha di togliere le radici della sofferenza non va mai persa di vista: essa dà la direzione generale, il senso cinico e il valore profondo a ogni analisi e a ogni intenzione. Per riuscire nell'impresa di sradicare le cause della sofferenza non basta tuttavia una grande capacità di attenzione e di contemplazione disinteressata, ma è necessaria anche una continua applicazione della forza di volontà. Questo aspetto è talmente importante che uno degli otto precetti che costituiscono l'Ottuplice Sentiero è quello del retto sforzo (sammavayrima). solo negativamente, come negazione della volontà, non potremmofar altro che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si son dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio.

 

Analogamente, si potrebbe dire che il Wille, in quanto principio assoluto - il quale, quindi, non può avere nulla al di fuori di sé - deve prevedere al suo interno la propria soppressione: i santi e gli asceti che raggiungono la negazione della volontà non sarebbero altro che manifestazioni empiriche, modi determinati del Wille mediante i quali il Wille nega se stesso, mostrando in tal modo la sua onnipotenza.

Segni di simili questioni metafisiche - che hanno un grande rilievo nelle Upanifad e nelle discussioni filosofiche a cui esse hanno dato origine - non sono presenti lungo gli insegnamenti del Buddha. Per ricordare la programmata estraneità del Buddha rispetto a ogni discussione di carattere metafisico, è da tener presente un famoso passo contenuto nel Majjhima Nikdya:

 

Perciò, Malunkyàputta, ciò che da me non è stato spiegato, tenetelo come non spiegato; e ciò che da me è stato spiegato tenetelo come spiegato. Ma che cosa, o Malunkyàputta, non ho spiegato? Che il mondo è eterno, ciò, Mdlunkyaputta, non ho spiegato; che il mondo non è eterno, ciò non ho spiegato; che il mondo ha fine, ciò non ho spiegato;. che il mondo non ha fine, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono la stessa cosa, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono due cose diverse, ciò non ho spiegato; che il Tathagata esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata non esi­ste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata esiste e non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathagata né esiste né non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato.”

 

É da notare in queste parole il chiaro intendimento del Bud­dha di limitare le pretese della ragione di dare spiegazione di questioni di cui non si può avere verifica empirica: egli, infatti, chiedendo «che cosa non ho spiegato?». . La sua, insomma, non è una posizione che pretenda di essere assoluta, valida cioè per tutti e per tutte le forme di espressione, ma è una posizione limitata alle sue conclusioni e a quei discorsi che presumono di poter dire qualcosa di definitivo su argomenti non suscettibili di dimostrazioni razionali.

Le ragioni per preferire un simile atteggiamento “sperimen­tale” rispetto a quello di un'accettazione acritica di qualche ve­rità assoluta sono ben illustrate nel paragone che a questo pro­posito il Buddha istituisce tra un uomo che si ostini a cercare soluzioni a simili questioni metafisiche e uno che, ferito da una freccia, prima di essere curato, voglia sapere dal medico chi l'ha colpito, a quale famiglia e casta costui appartenga, quale sia la sua carnagione, la sua statura, il suo luogo di nascita e quale tipo di arco e di freccia abbia usato per colpirlo. E evidente che costui finirebbe per morire dissanguato prima di aver ricevuto risposta anche a una sola di queste domande: così, chi si ostina a voler trovare risposta a domande metafisiche rischia di con­sumare la propria vita senza riuscire a togliersi o a farsi togliere quella freccia costituita dal problema del dolore. E infatti, alla fine del suo discorso ai Malukyàputta, il Buddha sostiene che, qualunque opinione si possa avere sui grandi problemi metafi­sici, esistono comunque la nascita, la vecchiaia, il decadimento e la morte, la sofferenza, il dolore, l'afflizione e l'angoscia.

E poche righe più sotto Schopenhauer esplicita ancor più chiaramente quanto intende dire:Essendo intuitiva e non astratta la conoscenza da cui nasce la  negazione della volontà, non può trovar la sua espressione compiuta in concetti astratti, bensì esclusivamente nell'azione buddhista è affrontato in particolare condotta..                               In base alla direzione indicata dal contenuto di queste ultime considerazioni formulate prima dal Buddha e poi da Schopenhauer, sì può allora concludere che, nonostante i molti motivi che differenziano le loro rispettive visioni del mondo, si delinea la possibilità di individuare un'importante convergenza che riguarda la scelta operata da entrambi a favore delle azioni, più che della coerenza astratta che dovrebbero avere i fondamenti logici o metafisica di tale efficacia: il Buddha,  infatti, ha sempre chiaramente mostrato che gli interessava, più                                     che l'itinerario conoscitivo con cui giungere a giustificare le ragioni di Karuna, la pratica di Karuna con la quale si riesce a mitigare, se non a togliere di mezzo, la sofferenza; parimenti SChopelillauer - nonostante le sue preoccupazioni teoretiche esistematiche - finisce per preferire le prove verificabili di un                                                         concreto esercizio del .Mitleid più che le argomentazioni razionali che dovrebbero fondarlo e giustificarlo.