Lacan, il miracolo dell'amore

In principio era l’amore. Niente altro che il tanto equivoco e tanto equivocabile amore. Qui arriva e da qui riparte Jacques Lacan, con le sue insegne di bucaniere apolide dell’oralità come impresa simultanea dello sbarco e del naufragio, nel suo Seminario VIII, anno 1960, curato da Jacques-Alain Miller, la cui edizione italiana sarà presentata questa sera a Roma (Einaudi, pp. 434, e34), nella traduzione di Antonio Di Ciaccia, come sempre molto puntigliosa nell’assecondare gli scarti a ripetizione della parola lacaniana. Che va, procede, carica, sbanda, arretra, accerchia e si lascia accerchiare, nell’incessante corrida in cui il parlante è allo stesso tempo il toro, il torero e la muleta. Colui che mata e colui che viene matato, ancora più spesso velato.

 

Il Seminario VIII prende il transfert per le corna e ne fa il tema. Transfert come innesco della cura analitica, quel movimento di offerta e di sottrazione che sigla il carattere paradossale dell’amore: la disparità tra l’amante e l’amato. La disparità è tutto in amore. L’ostacolo, ma anche il motore. In quanto esclude la simmetria del «volemose bene» tra analista e paziente. Se ci fosse questa simmetria, l’analisi franerebbe, non potrebbe neppure cominciare. Perduta la dimensione etica, scadrebbe nel fotoromanzo della suggestione e della manipolazione. Lascerebbe il paziente a mani vuote, ricacciato nell’inferno statico, pietrificato, del suo illusorio godimento. Insomma, se il transfert non è l’amore, certo lo mette alle corde, lo costringe a essere più amore di quanto non sia mai stato. Grazie alla resistenza (e alla rinuncia di potere) di chi sta nella parte dell’amato.

 

Nell’amore, lo ha spiegato bene Lacan nel nome di Freud, l’amante cerca nell’amato l’oggetto della sua mancanza. Si dispone a indovinare l’agalma, e cioè lo shining immaginario, l’abbaglio, il colpo di fulmine, che dovrebbe tumularlo ben bene nell’inganno. Sottraendosi a questo, restituendo al mittente la domanda d’amore, il padrone non fa altro che rimandare l’adorante talpa a scavare nel proprio giardino, alla ricerca dell’osso di cui si tratta. Trasforma la presunzione di essere amato nella dedizione a perdere (dunque a trovare) di chi ama, senza alcuna chance di essere ricambiato. Attiva il movimento della talpa. Lo scavo. La cura. Ancora una volta: in principio era l’amore. 

 

È quanto accade tra Socrate e Alcibiade. Il Seminario VIII è tutto calibrato sulla figura di Socrate. Lacan parte da lui, prossimo suo, primo analista della Storia e primo caso di transfert attivo nei secoli. Lo sfondo è il Simposio, il più stupefacente e attuale dei dialoghi platonici. La scena madre è l’irruzione nel banchetto di un Alcibiade alticcio e dunque verace che replica la sua domanda d’amore. Tanto bello quanto inascoltato. Socrate è, al di là del sembiante, un avvenente maestro, non in quanto sa ma in quanto si rifiuta come supposto sapere. Alone, fascino, cavità che induce la domanda. Desiderabile in quanto desidera. Socrate sa, prima di Lacan, prima di chiunque altro, che solo la mancanza promuove il desiderio e solo il desiderio è in grado di suscitare l’amore. Sa anche che nel transfert il paziente va per essere amato e si ritrova come amante. Costretto a decifrare il vero segreto dell’amore: «L’amore è dare ciò che non si ha, e non si può amare se non facendosi non aventi, anche se si ha. L’amore come risposta implica il campo del non-avere. Dare ciò che si ha, è la festa, non è l’amore». 

 

Socrate afferma di non sapere niente al di fuori delle cose dell’amore. Allo stesso tempo si sottrae, rifiuta di essere degno d’amore. Non si concede, «si mostra inclassificabile e irrappresentabile al cento per cento». Ciò consente ad Alcibiade, il soggetto della cura, di proiettare su di lui come in uno schermo vuoto le sue allucinazioni. Sfrutterà la sua asimmetria per esplorare le statuine del suo presepe. Un lavoro ben fatto. 

 

Che cosa mette insieme, dunque, la posizione di Socrate e quella dell’analista (Lacan include marginalmente anche quella del sacerdote)? Tutti e tre i soggetti sono presi, l’allievo, il paziente e il fedele, alla prese con i loro interlocutori, sono sottratti all’amore fisico ma non all’amore in quanto tale, il desiderio. La complicata metafora dell’amore è questa inversione di posizioni: quando l’oggetto diventa soggetto. È lì, quando la mano protesa dell’amante evoca «il ceppo» che brucia dell’amato, è lì che si compie per un attimo il miracolo dell’amore. 

 

L’amore, per il Lacan errante e transitorio del suo ottavo seminario pubblico, non somiglia a quello di Freud, arreso nella ripetizione dello scacco, nella partita a perdere di Narciso allo specchio, condannato a trovare se stesso nell’altro. Un equivoco per l’eternità. Ma non somiglia nemmeno a quello di sé per niente medesimo, il Lacan del Seminario VII, tutto proteso a restituire una versione tragica dell’amore, la fascinazione mortifera dell’oggetto del desiderio. Che non puoi cogliere mai, per definizione, ma soprattutto per assenza di definizione. Se ti avvicini ti bruci, se ti allontani scompare: non c’è mai la giusta distanza. Solo automatismo, ripetizione, pulsione di morte.

 

Nel Seminario VIII è tutta un’altra aria. L’agalma, l’oggetto del desiderio, è presentato in modo quasi festoso, prezioso, è il gioiello che brilla nell’orrore del vacuo. È la dimensione tragicomica dell’esistenza che s’impone e svela: l’incontro con il desiderio fallisce ogni volta, inciampa, rotola, come nelle più esilaranti farse di Peppino. O, per citare un autore molto amato da Lacan, come nelle insensate eroine di Claudel. 

 

La sfida esilarante (e commovente) di Lacan è, in questo suo ennesimo passaggio corsaro, come abbordare la verità dell’amore attraverso le comicherie del poeta Agatone, in cui è il fallo che fa puntualmente cilecca e, alla fine, «a letto c’è sempre calma piatta». Che sarebbe a dire, come articolare il vuoto con l’amore, come indovinare la possibilità di un incontro, di una lieta novella se non proprio un lieto fine, dentro quell’esilio a due che è l’incontro d’amore. «Ognuno incontra nell’altro la traccia del proprio esilio».

 

Psichiatra e filosofo

Jacques Lacan, psichiatra e filosofo, tra i mostri sacri della psicanalisi, nasce il 13 aprile 1901 a Parigi, dove morirà il 9 settembre 1981. Si laurea in medicina specializzandosi in psichiatria, ma nello stesso tempo, all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, segue i corsi di Alexandre Kojève sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel. In seguito si accosta a Freud, di cui si proclamerà sempre il vero interprete, dichiarando di voler tornare al suo insegnamento originario travisato dai successori: per questo più d’una volta verrà sconfessato dalle istituzioni freudiane ortodosse. Nel 1934, primario ospedaliero, viene ammesso nella Société Psychanalitique de Paris, da cui si distaccherà per fondare nel 1953 la Société Française de Psychanalyse e, dieci anni dopo, l’Ecole Freudienne de Paris. Nel frattempo di confronta con la filosofia contemporanea, legge Heidegger, si interessa allo strutturalismo (in particolare Lévi-Strauss e Saussure). Dal 1953 al 1980 tiene tutti i mercoledì dei seminari all’ospedale di Sainte Anne - seguiti da Bataille, Merleau-Ponty, Hyppolite - pubblicati in francese a partire dagli Anni 70 sulla base delle trascrizioni stenografiche. 

Gli Scritti, più compatti e didascalici, sono disponibili in italiano in due volumi Einaudi.

 

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