Il sintomo di Lacan

di Federico Leoni, leparoleelecose.it, 14 febbraio 2017

Jacques Lacan è di moda. Ha tutte le carte in regola, per esserlo. C’è il personaggio, il dandy drappeggiato di buffe camicie barocche, armato di uno strano sigaro attorcigliato e di una ricca serie di sentenze misteriose e fascinose. E c’è il suo insegnamento psicoanalitico, un discorso che nel giro di una pagina passa con nonchalance dalla drammatica dialettica servo-padrone all’algida eleganza dello strutturalismo, dagli enigmi esistenziali del desiderio all’improvviso balenare del misteriosissimo oggetto a piccolo. Infine c’è la materia bruta, incandescente, concretissima, intorno a cui ruotano il personaggio e l’insegnamento, cioè la vita di chiunque di noi, il suo percorso più o meno felice o infelice, di illusione in illusione, di scoperta in scoperta, di amore in amore. Quei concetti enigmatici e quelle manovre tortuose, di cui l’insegnamento di Lacan è intessuto, dovrebbero seguire nella loro tortuosità, illuminare nei loro anfratti più oscuri, accompagnare sperimentandone il segreto in fondo testardo e silenzioso, il tragitto di una vita. Ce n’è abbastanza, insomma, per essere di moda. E anche per resistere a ogni moda.

Per esempio, il libro che Alex Pagliardini dedica a Lacan, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale (Galaad), è decisamente fuori moda. Il Lacan più noto è il Lacan che si riassume in una batteria di parole chiave ormai sulla bocca di tutti. Il soggetto, il desiderio, l’inconscio strutturato come un linguaggio. Dalla più alta e complessa versione di questa lettura, quella di Massimo Recalcati, alla più corriva semplificazione di questa stessa lettura, si tratta di un paradigma che per forza intrinseca, chiarezza esemplare, capacità di dialogare con le inquietudini di un’epoca, si è imposto come uno standard, capace di formare un’intera generazione di lettori di Lacan, che hanno anzitutto conosciuto Lacan in questa prospettiva oggi condivisa e prossima a diventare una koinè. Mentre il libro di Pagliardini è fuori moda, o almeno è fuori da questa moda, è fuori da questa koinè. È il documento di un lacanismo austero, incurante delle seduzioni dell’attualità culturale, testardamente incentrato su un chiodo fisso che è quello indicato dal titolo e soprattutto dal sottotitolo del volume: Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il Reale. Qui la batteria di concetti chiave è tutt’altra: il godimento, il significante, il Reale, appunto.

I lacaniani in genere lo scrivono con la maiuscola, il Reale. Lo fanno per distinguere il Reale dalla realtà, che in fondo è qualcosa di convenuto e intersoggettivamente valido, e cioè di validato attraverso i discorsi e le immagini ed eventualmente le misurazioni o le sperimentazioni che svolgiamo intorno a qualcosa che catturiamo con quelle strategie, e insieme perdiamo proprio a causa di quelle strategie. Non che ce ne siano altre. Il Reale è tutto quanto non trova posto nelle immagini che ce ne facciamo e nei discorsi che ci costruiamo intorno. Il Reale è uno dei famosi tre registri di cui parla Lacan, insieme all’immaginario e al simbolico. Ma è facile vedere che i registri dell’immaginario e del simbolico sono appunto strumenti di cattura, registrazione, stabilizzazione, trasmissione del Reale. E che quindi il Reale non è affatto un registro, non è un dispositivo di cattura o di trasmissione, ma è ciò su cui ogni dispositivo di cattura e di trasmissione fa presa. È ciò su cui fa presa, e insieme ciò che resta imprendibile. È ciò che resta integralmente catturato e tradotto nel sistema delle immagini e nel sistema della lingua, e insieme è ciò che resta integralmente intraducibile in quei sistemi e che proprio per questo è disponibile a più traduzioni, a più registrazioni. Ancora. È ciò che non trova posto nell’immaginario o nel simbolico, ciò che resta senza immagine e senza nome, ciò che sperimentiamo senza poterlo catturare e registrare, ciò che subiamo come una potenza estranea e indefinibile, vicinissima e però consegnata a una distanza siderale. Ed è ciò che incontriamo come una promessa indecifrabile, come l’indizio disturbante di una felicità inaggirabile, come il luogo in cui stare.

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