“Io posso”. Intervista a Luigi Ballerini

di Sandra De Carli, Luigi Ballerini, Dialoghi Carmelitani, settembre 2016

La psicologia è chiamata a confrontarsi sempre più di frequente – sia sul versante teorico sia nella clinica quotidiana – con la dimensione del “potere”, nelle sue accezioni positive e in quelle più problematiche o patologiche. Numerosi sono i fatti di cronaca che mettono in evidenza come la dinamica del potere possa degenerare in violenza e sopraffazione; eppure, nel contempo, assistiamo di continuo alla difficoltà per molte persone di stimarsi e percepirsi come esseri che possono essere, pensare, costruire legami e interagire con il mondo. Abbiamo chiesto al dott. Luigi Ballerini, psicoanalista e scrittore per bambini/ragazzi (ma autore anche di alcuni testi per adulti), di fornirci alcune chiavi di lettura su questa tematica. La speranza è che, anche grazie agli spunti più significativi delle sue parole, il “potere” che ognuno di noi è chiamato ad esercitare (nella propria vita e nelle proprie relazioni) rappresenti sempre più una possibilità positiva e non una criticità o una limitazione.

Dottor Ballerini, in questo numero di Dialoghi viene affrontato il tema del potere secondo diverse prospettive. Quali significati e quali valenze offre la psicologia sulla dimensione del potere?
Sebbene sia riluttante ad ammetterlo, fino alla sua negazione, la psicologia è debitrice di Freud per quanto riguarda il tema del potere. Tutti gli autori classici della psicologia sono suoi debitori, quasi sempre diretti. È stato lui infatti il primo a parlare del bambino come pensante pensatore riconoscendo il potere del pensiero, anzi il pensiero come potere. Ha saputo poi operare la distinzione fra potere come comando e potere come facoltà di agire. Possiamo ben dire, quindi, che Freud ha rivoluzionato il concetto di potere proprio in quanto ha riconosciuto per primo al bambino il compito, che nessuno gli prescrive, di provvedere ai propri mezzi per governare la realtà. Ha inoltre descritto il tracollo della sovranità individuale sotto il peso di un contro–potere che si impone come rappresentante della realtà e che ha chiamato Super-io.

Esercitare un potere, rivendicare un potere, affermare un potere: spesso nella narrazione delle persone si ritrovano queste espressioni, soprattutto quando cercano di spiegare alcune dinamiche nelle relazioni affettive. A volte sembrano assumere una connotazione positiva, altre volte portano con sé una valenza negativa e/o patologica. Dalla sua esperienza clinica, come si esplica oggi il potere all’interno dei legami affettivi?
Quello della clinica è un osservatorio particolare, è il campo dove sono presenti, più o meno manifesti e conclamati, i sintomi e i segni della patologia comune. È il campo in cui si ha a che fare con il potere malandato, andato male, fino alle sue accezioni peggiori. Tutte accezioni in cui il potere viene sempre considerato come sostantivo. Così inteso, il potere riesce a manifestare nella società il suo inevitabile volto violento, malefico, oppressivo, manipolatore e soggiogatore. Il potere… ci sarebbe chi ce l’ha e chi non ce l’ha. La fonte, sempre esterna al soggetto, ravvisabile di volta in volta nella Natura (genetica), nel Lignaggio (genealogia), in Dio (investitura) o nello Stato (elezione), taglierebbe distintamente l’umanità in due fazioni contrapposte: una dotata di potere che non deve rendere conto di nulla o a nessuno, tranne che alle proprie regole interne e alla feroce angoscia di perderlo; e un’altra, priva di potere, che può solo lamentarsi, invidiare ed in qualche raro caso ribellarsi per sovvertire l’ordine costituito nel tentativo di passare dall’altra parte della barricata. Un soggetto che nei propri rapporti si muova all’interno di una tale concezione di potere, alla lunga ha o crea problemi. Potrebbe ad esempio cercarsi un compagno che abbia come requisito l’appartenenza ad una delle due fazioni. Alla fazione opposta, se si tratta di un impotente su cui comandare e sentirsi forte, o un potente da adorare e da cui farsi dominare. Oppure alla stessa: un compagno alla pari per rafforzarsi nell’offesa, in un caso, o rinchiudersi nella difesa, nell’altro. Tutte situazioni, comunque, in cui non si dà reale partnership e di conseguenza non si danno profitto, costruzione e produzione.

Potere, anziché un sostantivo, è invece un verbo per l’uomo che sta bene. È io posso. Che sa diventare posso con te, fino a possiamo insieme. Non si tratta più di esercitare o subire il potere nei legami affettivi, si tratta di poter creare legami. In quanto legami, poi, questi sono sempre affettivi, implicanti l’affetto inteso come passione pensata e pensiero appassionato, senza più alcuna scissione tra passione e pensiero. Affetto quindi ben distinto da emozione, che per sua natura si consuma presto e tutt’al più può essere rinnovata in una nuova vampata. La fonte di tale potere, inteso come facoltà, è tutta interna al soggetto. Io posso costituire legami sociali, partnership, appuntamenti. Appuntamenti: ecco la parola chiave del soggetto che sta bene, il cui potere consiste proprio nella sua facoltà di porli e promuoverli, nella più vasta accezione del termine. Se la vita in casa fosse fatta di appuntamenti cui aderire, piuttosto che di astratte regole cui sottostare, sarebbe più facile e serena di quanto non lo sia di solito. Il rapporto uomo–donna, fra sposi, l’educazione stessa dei figli potrebbero essere rivoluzionati dal riconoscimento della facoltà individuale di porre e rispondere ad appuntamenti, con profitto reciproco e costruzione di un “di più” inesistente in partenza.

Anche nel mondo giovanile il senso del potere è presente, a partire dalla necessità basilare di poter essere se stessi, di poter costruire la propria identità. Non è un percorso semplice, e spesso i ragazzi si ritrovano a muoversi velocemente su un continuum, che vede ad un estremo un vissuto di impotenza inaccettabile e all’altro un tentativo di onnipotenza, di fatto insostenibile. Come aiutare i ragazzi a viversi e a vivere le relazioni in modo da non identificarsi in uno di questi estremi e ad uscire da una posizione narcisistica, che nasconde al suo interno una profonda fragilità?
I ragazzi vivono le stesse difficoltà degli adulti, non costituiscono un mondo a parte. Respirano la stessa aria di tutti, ne condividono gli errori comuni. Anche loro rischiano di restare invischiati nella cattiva alternativa tra prepotenza e impotenza. Entrambe queste condizioni difettano di potere, quello che può e sa valutare, giudicare, agire. Esempio classico è il bullismo, fenomeno di cui si parla molto e che preoccupa genitori ed educatori: la disastrata coppia bullo-vittima vede due soggetti privi di potere. In essa non esistono infatti un vinto e un vincitore, ma due perdenti; così come non esiste un potente che schiaccia da una parte e un debole oppresso dall’altra, ma due impotenti semplicemente di segno opposto. Il bullismo è un buon esempio di dis-economia, assenza di vantaggio, rovina, macerie, ferite. È il regime della guerra militata, avverso a quello della pace nel rapporto che si permette solo chi può.

Ritengo che un aiuto ai più giovani sia recuperare per loro e con loro il concetto del lavoro. Intendo dire che i risultati si ottengono via lavoro e non via espedienti. I soldi si guadagnano e non si vincono, ad esempio (si pensi solo alla diffusione dei “gratta e vinci”), i risultati sportivi arrivano con l’allenamento e non con il puro talento, i successi scolastici con lo studio e la dedizione e non solo dall’essere intelligenti o geniali. Questo può essere in grado di scardinare la fallace idea di onnipotenza e impotenza come stati dell’essere, per riportarli nel più sano terra-terra della logica: se questo allora quello, se lavoro allora risultato.

Al bambino invece va riconosciuta quella facoltà di potere che è il pensiero stesso, perché pensiero e potere sono sinonimi. Un potere mite, capace di porre condizioni soddisfacenti per sé e per i propri partner, un potere che non disgiunge la soddisfazione personale da quella altrui, un po tere che, almeno per un po’, sa difendersi dagli attacchi che lo vogliono ridurre o eliminare. Tra questi attacchi possiamo annoverare quelli di una certa pedagogia che vede con orrore l’iniziativa individuale, innanzitutto di pensiero del bambino, e ritiene l’educazione una forma di contenimento e controllo. Il bambino, come una fiera da domare, andrebbe ricondotto all’obbedienza incondizionata alle teorie dell’adulto, che “sa” proprio in quanto adulto. Nel rapporto con il bambino, al principio ereditario di trasmissibilità di beni, non necessariamente o innanzitutto materiali, viene così sostituito un principio di comando: l’educazione diventa condizionamento, le case si trasformano in caserme, gli inviti in ordini, il piacere viene scisso dal dovere e messo in sua antitesi. L’educazione tende a vedere il bambino come debole e incapace, confonde l’inabilità temporanea con la debilità; fatica a riconoscere in lui quel potere che già a due anni, ad esempio, gli permette di costruire la lingua con cui comunicare con i suoi simili e fare legame sociale, quel potere che già anche da prima gli permette di porre atti di compiacimento dell’altro in favore del rapporto. Bisogna stare attenti a parlare bene di educazione se non se ne conosce il senso, ossia la direzione da cui arriva e soprattutto dove porta. Educazione non è un lemma neutro, buono per tutte le stagioni. Soprattutto non è un lemma sempre buono.

Segue qui:

http://www.mec-carmel.org/uncategorized/io-posso/

Scrivi commento

Commenti: 0