di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 11 giugno 2016
Nel nostro modo di affrontare la violenza contro le donne ci sono errori seri.
Il primo errore è l’affidamento eccessivo allo strumento della repressione legale. Siamo convinti, perché ci semplifica la vita, che il rigore della pena abbia di per sé un effetto dissuasivo a
causa del timore che incute. In realtà la dissuasione agisce indirettamente, attraverso il sentimento di esclusione: la punizione sancisce soprattutto l’auto-estraniazione dell’autore di un
delitto dalla costruzione e condivisione di un interesse comune e fa leva sul legame di appartenenza dei cittadini con la comunità. Qui sta la forza della legge, ma anche la sua
vulnerabilità. Si rivolge efficacemente a coloro che desiderano essere inclusi nella società civile e nei suoi conflitti, e sanziona i loro eccessi di passione. Nulla può contro la
produzione sociale di esclusi privi di passione e senza un reale approdo al mondo, che agiscono spinti da compulsioni distruttive, se non impedire che reiterino i loro crimini.
Il secondo errore è il nostro appiattimento su una cultura “politicamente corretta”, che dispensa canoni del buon pensare e del buon agire, in mezzo a una sorda disperazione con cui si
relaziona in modo cosmetico. A ogni donna sfregiata o uccisa rispondiamo con l’autocompiacimento di chi sta dalla “parte giusta”, cioè né nella posizione del carnefice né della vittima.
Costoro vivono in un altro mondo che i nostri bei sentimenti non riescono a raggiungere: non lo conoscono. Il terzo errore è la sostituzione del corpo erotico vivo, ribelle alla sua
manipolazione, alienazione da parte del potere, con il concetto astratto di “genere”. L’uso di questo concetto è assoggettato, al di là delle intenzioni, alla sovradeterminazione sociale
della relazione erotica.
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