Thanopulos: “La lingua del nemico”

di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.info, 23 gennaio 2015

ha­me­dou Ould Slahi è un Mau­ri­tano dete­nuto a Guan­ta­namo da 13 anni. In pri­gione ha ini­ziato a scri­vere, in inglese, un dia­rio che ha finito nel 2005. Il mano­scritto è stato seque­strato dal governo degli Stati Uniti, nono­stante le rei­te­rate richie­ste dei legali dei suoi fami­liari, e solo recen­te­mente è stato dese­gre­tato e con­se­gnato a loro. Il 20 Gen­naio è uscito in forma di libro, men­tre il mano­scritto si può leg­gere sul sito del «Guar­dian».

Slahi ha ripor­tato solo i fatti che ha diret­ta­mente espe­rito o visto o appreso di prima mano. Ha scritto che voleva essere giu­sto con il governo degli Stati Uniti, con i suoi fra­telli di pri­gione e con se stesso. Larry Siems, uno scrit­tore ame­ri­cano, difen­sore dei diritti umani, che ha com­pa­rato il mano­scritto con la car­tella del governo sta­tu­ni­tense sul caso di Slahi, afferma che la sua pre­sen­ta­zione dei fatti è del tutto atten­di­bile. I misfatti espo­sti, dice Siems, sono cor­ro­bo­rati dal con­te­nuto della car­tella e per­fino quando scrive dei fatti più estremi il suo stile nar­ra­tivo resta mode­rato e diretto.

Slahi doveva essere in piedi quando le guar­die entra­vano nella sua stanza, in qual­siasi momento, e quindi non riu­sciva a dor­mire. Era costretto a man­te­nere il wc sem­pre secco e pulito e quindi doveva asciu­garlo con la pro­pria divisa e restare inzup­pato delle pro­prie feci. Gli hanno fatto bere acqua salata.

Nono­stante avesse odiato la lin­gua dei suoi car­ce­rieri, ha deciso, avendo una cono­scenza ele­men­tare dell’inglese, di impa­dro­nirsi bene della sua cono­scenza. Il rifiuto, scrive nel dia­rio, era emo­zione, la sag­gezza andava nella dire­zione opposta.

Impa­rare la lin­gua dei suoi tor­tu­ra­tori gli è ser­vito per met­tere un argine psi­co­lo­gico alla loro pre­va­ri­ca­zione, per ren­dere meno ano­nima e inu­mana la loro azione. L’ignoranza della lin­gua dell’altro aumenta l’imprevedibilità dell’impatto con lui e diso­rienta la curio­sità e il desi­de­rio nei suoi con­fronti. Se poi egli si pre­senta come impla­ca­bile aggres­sore (che tiene il col­tello dalla parte del manico), l’incomprensibilità del suo dire rad­dop­pia l’aggressione, sia per­ché la rende più insen­sata, sia per­ché fa regre­dire emo­ti­va­mente l’aggredito nella posi­zione infan­tile dell’essere privo di sapere e di parola.

L’obiettivo di Slahi, in cui è tut­tora impe­gnato, non è sem­pli­ce­mente soprav­vi­vere o denun­ciare i tor­tu­ra­tori, ma man­te­nersi psi­chi­ca­mente vivo. Scri­vere della sua espe­rienza è stato un modo di impa­dro­nir­sene, di non lasciare che la cruda vio­lenza dei fatti spaz­zasse via la sua pos­si­bi­lità di rap­pre­sen­tarla e di ela­bo­rarla. Essere ugual­mente giu­sto con il nemico (misu­rarlo in modo esatto, senza esa­ge­rare o mini­miz­zare) e con i suoi com­pa­gni di sven­tura (testi­mo­niare, agli altri e a sé, in modo lucido e atten­di­bile la sof­fe­renza comune) gli ha per­messo di essere giu­sto con se stesso: evi­tare che la dispe­ra­zione, l’esasperazione, la rab­bia cieca, lo scon­forto e l’autocommiserazione offu­scas­sero il suo modo di sen­tire e di pensare.

La deci­sione di scri­vere della vio­lenza subita nella lin­gua del vio­len­ta­tore, va ben al di là dell’identificazione con l’aggressore e la capo­volge. Piut­to­sto che repri­mere la parte desi­de­rante di sé, la più indi­fesa e vul­ne­ra­bile all’aggressione, Slahi ha scelto di affermarla.

Usare la lin­gua dell’altro vio­lento, acco­glierlo nei suoi aspetti poten­zial­mente desi­de­ra­bili, signi­fica poterlo odiare e com­bat­terlo a par­tire dal pro­prio desi­de­rio, per affer­mare le pro­prie ragioni e il pro­prio modo di vivere piut­to­sto che denun­ciare le sue. Con­tro un potere ottuso e insen­sato, il rifiuto di rin­chiu­dersi nel ruolo di vit­tima è la rispo­sta più sana.

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