“Storia di una ladra di libri”, ovvero come la cultura può salvare dall’oblio

di Francesca Fichera.

C’è un che di omerico nei saluti prima della guerra: abbracci rubati a una privazione che, molto probabilmente, sarà eterna. Se non fosse per quei pochi momenti in grado di ritrarli, resterebbe ben poco da apprezzare in Storia di una ladra di libri di Brian Percival, tratto dal libro di successo di Markus Zusak.

La guerra – la seconda, terribile frattura del XX secolo – è raccontata dal punto di vista della morte e da quello, in terza persona, di una ragazzina bionda dal viso angelico, Liesel Meminger (Sophie Nélisse), data in adozione ai coniugi Hubermann dalla madre costretta all’esilio. La bimba entra subito in sintonia col lato paterno della coppia, più morbido e giocoso (un Geoffrey Rush che, ancora una volta, si fa volere bene), a cui confessa di aver rubato in libro che non è in grado di leggere. Liesel, infatti, è completamente analfabeta. Sarà il patrigno a instradarla alla lettura, il piccolo amico Rudy a darle il materiale per le sue storie (la vita) e Max, giovane ebreo nascosto nella sua cantina, a insegnarle la scintilla platonica dello scrivere e del de-scrivere (l’amore). Lei ricambierà raccontando, degli altri come di se stessa.La regia di Percival, che ha vinto il BAFTA e l’Emmy per il lavoro fatto nella serie tv Downton Abbey, con Storia di una ladra di libri fallisce perdendosi nell’insidioso labirinto della meta-narrativa: un racconto sull’arte del raccontare è effettivamente cosa non facile, specialmente quando c’è da mescolare la storia di uno con quella di molti. In tali casi la retorica è in agguato, e vedere bambini che urlano al cielo “Io odio Hitler”, per quanto sia un episodio motivato da nobilissimi principi, non sortisce ciò che si sperava. Più che altro imbarazza. E di momenti imbarazzanti, nel film di Percival, fra le miriadi di dissolvenze, scene d’insieme (ridicole e artefatte, come la trasposizione della “Notte dei cristalli”) e aforismi su vita, morte ememoria, ce ne sono a iosa. Incluso il “finale prima del finale”.

Vero è che la storia – quella scritta da Zusak – passa al punto da far venire voglia di leggerla, di comprare il libro (e non rubarlo: al massimo chiederlo in prestito, ché l’editoria ha già le sue gatte da pelare), come passano i suoi significati. Ma è pur vero che creare qualcosa comporta l’esistenza di un legame inscindibile fra la veste e il corpo, il modus e l’essenza, la tecnica e il cuore – no, non ci stancheremo mai di dirlo.  Una creazione che fa questo è degna di chiamarsi tale e di essere ricordata, perché (ed è verissimo anche questo) “memory is the scribe of the soul”/”la memoria è lo scrivano dell’anima“. Lo ha detto Aristotele, e fa bene, benissimo, riportarlo alla mente, anche nel leggere un film, qual è Storia di una ladra di libri, assolutamente modesto.

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