Da Lacan una analisi del potere

da Einaudi, con un saggio di Miller, il "Seminario XVII" di Lacan, curato da Di Ciaccia. Tenuto tra il '69 e il '70, a ridosso della contestazione, indaga un punto cruciale: cosa "copre" il mito dell'Edipo freudiano? ( dal Il ManifestoDi Massimo Recalcati)

 

L'uomo non è fatto per essere felice. Con questa sentenza Freud apriva le sue riflessioni sul disagio della civiltà. Il suo destino mortale, l'incombenza delle malattie, l'esistenza degli altri rendono la vita umana irrimediabilmente precaria. Tra le esigenze particolari (pulsionali) del soggetto e quelle della civiltà non c'è armonia possibile. Di qui il giudizio "ambivalente" di Freud su Marx e sulla dimensione politica del marxismo. Se per un verso si può trovare in Marx un'analisi strutturalmente rigorosa del capitalismo come regime di sfruttamento dell'uomo sull'uomo (regime che manifesta secondo Freud la tendenza propriamente umana alla sopraffazione), dall'altro la prospettiva della liberazione rivoluzionaria gli appariva ingenua e destinata fatalmente a ribaltarsi nel suo contrario.

Dopo quarant'anni da Il disagio della civiltà di Freud nel Seminario XVII intitolato Il rovescio della psicoanalisi che Jacques Lacan tenne nel corso dell'anno 1969-1970, dunque a ridosso della contestazione studentesca che scosse così profondamente il mondo occidentale, si ritorna su questo snodo fondamentale del conflitto irriducibile tra l'esigenza particolare del soddisfacimento pulsionale e il programma universale della civiltà. Nondimeno questo Seminario è illeggibile se non si considera anche la cornice storica in cui si inscrive. Se Lacan consacra questo Seminario ad un'analisi psicoanalitica radicale del problema del potere e del suo esercizio è anche perché considera tra i suoi maggiori interlocutori gli studenti protagonisti della contestazione.

"La psicoanalisi è rivoluzionaria?" gli domanda uno studente nel corso di una conferenza piuttosto animata svoltasi a Vincennes il 3 dicembre del 1969. "Ecco una buona domanda!" risponde Lacan. In effetti possiamo leggere l'intero percorso di questo Seminario come una risposta a questo interrogativo davvero cruciale.

Se "le strutture non scendono per strada" - come dichiarava un manifesto appeso sui muri della Sorbona - Lacan ricorda agli studenti di Vincennes che non si può in nessun modo liberarsi dalla legge della struttura, ovvero che non si può uscire fuori dal "sistema" dell'Altro. "Io sostengo - dichiara uno studente - che è fuori che bisogna andare a cercare i mezzi per buttare all'aria l'Università!". Risposta di Lacan: "Ma fuori da cosa? Perché quando uscite di qui diventate afasici? Quando uscite, continuate a parlare, di conseguenza continuate ad essere dentro".

Non ci si può, dunque, insubordinare al campo del linguaggio e ai suoi effetti di alienazione perché semplicemente non esiste qualcosa come un "fuori" dal linguaggio. Lacan accentua qui il carattere sovraindividuale del linguaggio che contrasta con l'idea umanistica dell'uomo come padrone del mondo. Non è l'uomo che parla ma il linguaggio. Non siamo noi ad impiegare il linguaggio ma siamo noi ad essere i suoi impiegati. Nondimeno il passo che Lacan si impegna a compiere consiste nel complessificare la sua teoria dell'inconscio strutturato come un linguaggio che aveva costituito la strada maestra del suo ritorno a Freud nel corso degli anni Cinquanta. Un nuovo concetto viene qui introdotto: si tratta del concetto di discorso che, in quegli stessi anni, cattura, per esempio, le ricerche teoriche di AlthusserFoucault e Barthes.

L'interrogativo che anima queste ricerche è comune: si trattava di localizzare i modi specifici della dipendenza degli enunciati soggettivi da determinati tipi fondamentali di enunciazione. I discorsi non sono in un numero infinito, come invece vorrebbe una certa ermeneutica, ma si possono ridurre essenzialmente a quattro: quello del Padrone, dell'isterica, dell'analista e dell'Università. La risposta alla domanda se la psicoanalisi è rivoluzionaria viene ricercata da Lacan nell'individuare il punto di differenziazione radicale tra il discorso del Padrone e quello analitico. Ciò che Lacan vuole dimostrare è l'eterogeneità della posizione dell'analista dalla posizione del padrone. In quest'ultimo ciò che si trova in una posizione dominante è la regola universale, la legge, il comando, la gerarchia, la norma consolidata universalmente. Il discorso del Padrone incarna in fondo l'antagonista politico della contestazione studentesca. Nel discorso dell'analista nella posizione dominante non c'è il comando, il potere del sovrano, il potere del capo, il potere dell'insegna sociale, ma l'oggetto piccolo (a) in quanto oggetto - freudianamente - da sempre perduto.

Il discorso del Padrone è il discorso del divieto, dell'interdizione del godimento. Esso esclude il fantasma (e la fantasia) perché vuole solo che la regola sia applicata. Ciò che fa funzionare il discorso analitico, al contrario, non è il rispetto della regola universale ma la passione che orienta e calamita il desiderio del soggetto e che Lacan nomina come oggetto piccolo (a). L'analista deve riuscire a destituirsi di ogni potere; la sua neutralità ci dice Lacan consiste nel mantenersi distante - come insegna la grande saggezza del buddismo - dalle tre passioni dell'essere, ovvero l'odio, l'amore e l'ignoranza per lasciare al soggetto la possibilità di incontrare l'incarnazione del suo proprio fantasma. Così, mentre la logica del padrone produce identificazione cieca, assimilazione al capo, unione alienante con l'altro, quella del discorso analitico deve mostrarsi in grado di produrre la caduta dell'identificazione al Padrone e di promuovere nel soggetto un movimento di separazione. In questo senso la posizione dell'analista rovescia quella del padrone. Per questa ragione se Lacan aveva negli anni Cinquanta esaltato le virtù dialettiche dell'analista come "padrone della verità" e successivamente definito la funzione dell'analista in quella del Soggetto Supposto Sapere, ora giunge a riconoscere che l'unico Soggetto Supposto Sapere possibile è il soggetto in quanto analizzante, mentre l'analista si riduce ad essere un puro oggetto. In questa prospettiva Lacan s'impegna nel differenziare l'esperienza dell'analisi da una correzione psico-pedagogica dell'Io la quale, come avviene attualmente nel mercato variopinto delle psicoterapie, è solo una variante contemporanea del discorso del Padrone. Mentre, in effetti, il discorso del Padrone punta ad una mera riabilitazione della norma-lità ("un vero Padrone non desidera sapere assolutamente nulla - desidera solo che la cosa funzioni". E, ancora, "ciò che ci si aspetta da un'analista è far funzionare il proprio sapere in termini di verità.

Perché l'oggetto-analista non può essere integrato nella gerarchia ordinata dal discorso del Padrone? Come questo oggetto-scarto può preservare l'elemento rivoluzionario proprio della psicoanalisi? Perché, risponde in fondo Lacan, questo oggetto-scarto sostiene (nel senso che è, come si dice in politica, "dalla parte di") la causa più particolare del soggetto, causa inassimilabile ad ogni norma universale. Per questa ragione Lacan insiste nel ritenere che l'azione dell'analista, tale quale, per esempio, si manifesta nell'interpretazione, tende a rompere, a disarticolare il "senso comune" mantenendosi nello stesso tempo irriducibile ad una spiegazione in termini di sapere, ad un travasamento dottrinario del sapere acquisito dall'analista nella testa del paziente, per esporre piuttosto l'analizzante all'incontro con l'enigma di una "enunciazione senza enunciato". In questo senso il cammino di un'analisi non è il cammino di una correzione morale, né quello di una assimilazione intellettuale di un sapere universale che esclude la verità, quanto piuttosto un cammino che conduce un soggetto a fare prova (come si dice in matematica, ma anche come avviene nel corso di una testimonianza che deve poter fornire una prova) della verità che ha acquisito su se stesso in termini di sapere.

Ciò che può spingere un soggetto sino a questo punto estremo di una testimonianza al limite dell'impossibile è il discorso isterico. Questo discorso ha come dominante non il comando imperativo (discorso del Padrone), né l'oggetto perduto del desiderio (discorso dell'analista) ma il sintomo, ovvero i patemi di un soggetto. Ciò che Lacan definisce "isterizzazione del discorso" indica precisamente questo movimento che spinge un soggetto a voler sapere qualcosa delle cause della sua sofferenza senza però affidare questa volontà di sapere al discorso della medicina (variante moderna del discorso del Padrone).

Sono state infatti storicamente le isteriche a guidare Freud verso il soggetto dell'inconscio. Per il discorso del Padrone l'isteria era più o meno una recitazione agita. E' stato Freud che ha dato dignità di discorso al sintomo isterico. L'isterica non si accontenta del sapere universale della scienza medica (per Lacan, occorre ricordare, il discorso del Padrone si radica sul Sapere filosofico come Weltanschauung che pretenderebbe di ordinare e classificare il mondo in schemi ontologici immutabili).

L'isterica è alla ricerca di un sapere sulla verità. In questo senso essa, diversamente dal discorso universitario che si limita a replicare servilmente il discorso del Padrone rinunciando ad ogni elemento di creazione e di invenzione, sospinge verso un nuovo sapere mettendo, come afferma Lacan, il sapere (della scienza) al puro servizio della verità.

L'affermazione storica del capitalismo produce secondo Lacan una trasformazione del discorso del Padrone nel "discorso del capitalista". Il quale discorso non viene ancora apertamente formulato nel corso del Seminario XVII ma costituirà il tema di una celebre conferenza svolta a Milano nel 1972. Se il discorso del Padrone fa valere una concezione gerarchica del potere, il discorso del capitalista promette invece la falsa democrazia della circolazione illimitata degli oggetti di consumo e del diritto di ciascuno al loro godimento. Il discorso del capitalista appare come un circuito di riciclo nel quale "tutto si consuma" incessantemente, secondo un'espansione globalizzante, nell'illusione che in questa consumazione infinita la "mancanza a essere" che costituisce l'esistenza possa essere magicamente risolta. Per questo il discorso del capitalista per funzionare non deve solo promettere la risoluzione della mancanza ma creare continuamente pseudo-mancanze che possano alimentare il circuito del consumo.

L'offerta maniacale dell'oggetto da consumare prende così il posto del divieto del Padrone. In questo senso l'oggetto piccolo (a) sembra stravolto dal suo essere oggetto-perduto essendo messo a disposizione sul mercato in una metamorfosi spettacolare che mobilita quella girandola dei gadget che, dell'oggetto piccolo (a), costituisce solo il suo aspetto "fasullo".

Con la teoria dei quattro discorsi Lacan impegna dunque la psicoanalisi nella formulazione di una teoria del potere. Ma nella seconda parte del Seminario non può esimersi dal fare lui stesso i conti con la dottrina freudiana dell'Edipo che ha costituito l'architrave della dottrina psicoanalitica del potere. Nell'Edipo freudiano è la funzione paterna a separare il bambino dalle fauci del desiderio della madre (che qui, non a caso, vieneassimilato da Lacan ad una bocca di coccodrillo spalancata) al prezzo di una perdita di godimento del soggetto (del corpo della madre). Ebbene, Lacan torna ad interrogare l'Edipo di Freud che però considera adesso solo "un sogno di Freud".

Che cosa "copre" dunque il mito dell'Edipo freudiano? E' questa l'interrogazione cruciale che sospinge Lacan a slegarsi da Freud, ovvero a perlustrare, prima dell'Antiedipo di Deleuze e Guattari e con tutt'altri esiti, l'al di là dell'Edipo. E' in questo movimento teorico del Seminario che forse si può sentire la ripresa lacaniana di ciò che stava avvenendo nelle strade e nelle piazze del '68. "Il re è nudo!". Il padre, fa da eco Lacan, è da sempre castrato! La verità dell'Edipo freudiano non è contenuta nel mito sofocleo (Edipo uccide Laio e accede al godimento della madre), ma in quello del padre dell'orda raccontato da Freud in Totem e tabù, nel quale l'assassinio del padre non è la condizione per accedere -come per Edipo - al godimento della madre ma la condizione paradossale per l'istituzione retroattiva della legge e del patto sociale.

 

Come dire che la soddisfazione umana, se non vuole consegnarsi ad un Padrone (foss'anche quello invisibile del godimento per tutti proprio del discorso del capitalista), può realizzarsi solo sullo sfondo di una perdita. Nel mito di Totem e tabù il padre morto trascina con sé il godimento impossibile di tutte le donne, facendosi esso stesso "colui che lo tiene in serbo". Se il padre non è più l'Ideale attraverso il quale il soggetto può costituirsi, ma solo "un operatore strutturale", ovvero un nome per nominare l'azione della struttura come azione che spoglia il corpo umano del godimento originario, allora il compito del soggetto non dovrà essere quello di riesumare sotto altre vesti l'ideale del Padre-Padrone - dell'"Altro dell'Altro" - quanto piuttosto quello di assumere la verità della struttura, ovvero che "niente è tutto!", che l'esistenza è senza garanzia. E' questo che in fondo non vogliono vedere gli studenti del '68 che accusarono anche Lacan di essere al servizio del sistema e ai quali, in modo purtroppo profetico, Lacan rispose: "L'aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del Padrone. E' ciò di cui l'esperienza ha dato prova. Ciò a cui aspirate come rivoluzionari è un padrone. L'avrete."

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Commenti: 3
  • #1

    barbara (mercoledì, 02 dicembre 2015 06:25)

    Articolo molto interessante. Sarebbe utile sapere la data di pubblicazione su il manifesto. Grazie

  • #2

    Alessandro (giovedì, 03 dicembre 2015 15:21)

    qua ci sono una serie di articoli interessanti che può leggere e forse risalire a quello che le interessa: http://www.massimorecalcati.it/interventi/

  • #3

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