Molte parole vuote, complice anche la rete. E rischia di vincere il conformismo. Un incontro al teatro «Parenti» analizza le nuove forme di asservimento
In una recente intervista a «El País», il capo di Stato dell’Uruguay, Pepe Mujica, ha dichiarato: «Sono stato schiavo per molti anni. Prima schiavo della dittatura e, in seguito, prigioniero delle mie rigidità ideologiche». Nelle parole dell’anziano presidente c’è la lucidità dei poeti e dei rivoluzionari: la libertà e la schiavitù convivono più frequentemente di quanto si pensi. E di moderne forme di schiavitù si parlerà a «Jewish and The City», domenica 14: al Franco Parenti si confronteranno religiosi, scrittori e storici. Cominciando col precisare che forse oggi sarebbe meglio parlare delle schiavitù, al plurale: dai pregiudizi sessuali e sociali ai persecutori interni (o sensi di colpa), a imbrigliarci oggi sono reti invisibili, spesso accomodanti e vischiose. «Il tempo, per esempio — commenta Rav Benedetto Carucci Viterbi, studioso di ermeneutica ebraica —. Nelle Scritture si legge che il popolo ebraico uscì in fretta dall’Egitto. Una fuga che è anche liberazione, quasi un parto. Ma oggi il tempo diventa una gabbia: il quando ci fa dimenticare che cosa e come».
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