André Green. Contro i burocrati della psicoanalisi.

André Green. Contro i burocrati della psicoanalisi.

 

Andrè Green è l’ultimo grande esponente della “stagione psicanalitica” francese, quella di Lacan per intenderci.  Madre portoghese, padre spagnolo, cresce nella comunità ebrea del Cairo.Di seguito “posto” quest’intervista di Manuela Trinci in cui lo psicanalista discute e critica alcune tendenze dell’attuale ricerca psicanalitica.

Un breve ritratto dell’autore su:http://sentierierranti.blogspot.com/2010/05/ritratti-1-andre-green-uno.html

di Manuela Trinci

Uno psicoanalista impegnato André Green, un uomo che – ormai alle soglie dell’ottantesimo compleanno – continua a suscitare ammirazione, polemiche, rispetto. Uno degli ultimi «grandi» che, dopo decenni di formazione, di gestazione e di creazione, ha dato vita a un pensiero perfettamente integrato nei contorni di un’opera strutturata e coerente, che si è fatta cerniera di un nuovo rapporto col freudismo. A lui si devono dei lavori fondamentali di psicoanalisi applicata, per esempio sui personaggi scespiriani, da Amleto a Re Lear, la teorizzazione della «psicosi bianca», cioè i riflessi della depressione materna sullo sviluppo del bambino, la cura delle patologie degli «stati limite» novità assoluta negli anni Settanta. Mentre dalla ridefinizione teorica e clinica del narcisimo, che, liberandolo dalla sola sfera patologica, ne individua gli aspetti anche vitali, sino al ripensamento di Bion e di Winnicott e alla durissima interlocuzione con Lacan, Green continua a porre limiti precisi fra la psicoanalisi freudiana e le altre psicoanalisi possibili. Critico, dunque, nei confronti dei nuovi, emergenti, movimenti di ricerca, lo psicoanalista parigino ha più volte sottolineato come, per esempio, l’osservazione sullo sviluppo infantile abbia apportato ben poco al pensiero psicoanalitico e come l’enfatizzazione della relazione mamma-bebè abbia creato uno specie di mito della relazione duale da cui è necessario uscire, così come molti degli approcci cognitivi, o correlati alle neuro scienze, abbiano tentato di trasformare la psicoanalisi in una conoscenza oggettiva, priva di interesse. Ma, soprattutto, Green non tollera compromessi su questioni di etica e non demorde nella condanna di posizioni per lui lesive del rispetto del paziente. E circondati come siamo da inventori di tecniche ispirate alla psicoanalisi e da esperti nel sorvolo delle idee, André Green potrebbe apparire come uno psicoanalista severo, crudo, irremovibile. Eppure il paradosso è che così tanto rigore produce quale risultato una grande libertà di pensiero e una accezione della conoscenza come ricerca di potenzialità infinite.

Professor Green, lei si definisce psicoanalista per scelta o per vocazione?

«So di dovere a mia madre una vocazione psichiatrica. Quando avevo due anni, lei perse una giovane sorella in maniera tragica. E per dire le cose come stanno, penso che uno dei miei scritti fondamentali, La madre morta, si radichi nelle mie rimembranze infantili di una madre depressa e distante. Per il resto ho solo dei ricordi, per esempio, che a dieci anni volevo diventare psichiatra. Poi ho perso mio padre molto presto, senza avere avuto con lui scambi significativi e comunque, essendo l’ultimo di quattro fratelli, tutti molto più grandi di me, mi sono ritrovato in una cronaca familiare già vissuta senza che io vi fossi associato. Ero sradicato. Sino da piccolo ho capito che dovevo e potevo contare su nient’altro che me stesso. Anche per questo ho sempre ritenuto le amicizie importanti quanto la famiglia. In fondo i miei veri fratelli erano gli amici, e quando nel ‘46 lasciai Il Cairo alla volta di Parigi, fu proprio l’allontanamento dagli amici la nota più dolorosa. In compenso c’era la Francia, un’entità mitica, che sino dagli anni del liceo mi era apparsa come la mia terra ideale, la mia patria».

Quindi, si potrebbe dire, parafransando Winnicott, dalla psichiatria alla psicoanalisi! 

«Quando sono arrivato all’ospedale Sainte Anne, a Parigi, non mi sono certo trovato in un mondo di psicoanalisti, anche se ero in mezzo a psichiatri che per la maggior parte possedevano una formazione psicoanalitica. C’erano Pierre Male, Pierre Marty, Frances Pasque, e io notavo come questi lavorassero in maniera assolutamente diversa da altri psichiatri privi di orecchio psicoanalitico. C’erano anche Guy Rosolato, un grande amico, e poi Henri Ey, che è stato per me, oltre che un maestro, un padre. In molti mi consigliarono allora di iniziare un’analisi personale e Maurice Bouvet fu il mio primo analista. Frequentavo pure un gruppo di intellettuali, da Derrida a Deleuze a Michel Serres a René Girard. E come pretendevo, e mi intestardivo, perché loro riconoscessero il valore del pensiero psicoanalitico! Presto ho perso le illusioni, pur se tutto questo ha contribuito a formare il mio stile personale».

Molti psicoanalisti, Freud per primo, hanno riconosciuto un loro personale debito alla letteratura, e lei stesso nei suoi lavori di psicoanalisi applicata ha tributato a Shakespeare un posto d’onore.

 «Sì, anch’io devo molto alla letteratura. Ero ancora un ragazzo e mio padre era morto da poco quando mi allettai per più di un anno. Fui costretto a prendere una sorta di distanza da me stesso, a riflettere a pensare. Compagni mi furono i libri. Così ricordo il mio primo Shakespeare, poi le tragedie greche, Eschilo, Euripide. Ho ammirato Beckett e sono stato stato catturato dall’opera di Borges. Tuttavia ancora leggo Racine, Proust, James, Conrad. Sono fedele nei gusti. Diffido invece di quel pullulare di scrittori o presunti tali che pubblicano continuamente e che, magari, dopo tre anni nessuno ricorda più. Comunque, per me, c’è qualcosa al di sopra della letteratura. Mi riferisco alla musica, di cui mai ho scritto. La musica è forse al di sopra della psicoanalisi. Anzi, penso che ci siano cose che la musica riesce a esprimere e sulle quali la psicoanalisi non ha molto da dire. In più, mi sono convinto che ci sono analisti che amano la pittura e analisti che amano la musica. Non si interessano alle stesse cose. Suppongo che gli analisti che amano la musica siano quelli per i quali l’affetto ha una dimensione essenziale e in nessun momento possono accontentarsi dei giochi di linguaggio e dei racconti affascinanti».

Ci sono momenti in cui la musica incontra la psicoanalisi?

«Soprattutto nel ritmo, nel tempo, nel fraseggio musicale. Lì la musica incontra l’analisi. C’è un fraseggio, una specie di respirazione, di cui solo la musica può dare un’idea». Lei è stato «accusato» di richiamare all’ordine la psicoanalisi, soprattutto per quanto ne costituisce l’assetto e la pratica. Insomma, lei gode di una reputazione di uomo non facile, senza compromessi. «La ringrazio. Ovvio che ci siano “mandarini” in psicoanalisi come già ci sono in psichiatria. Io mai sono stato signore né vassallo. Figlio di migranti e migrante io stesso ho piuttosto un certo gusto per l’indipendenza, per l’originalità, il che può avere avuto un ruolo in quanto nel tempo mi è stato attribuito come peculiarità del carattere. Ho bisogno di gridare la mia verità agli altri e se mi sono sbagliato domani posso ricredermi e scrivere un altro libro differente: pazienza!»

Le viene anche rimproverato di non essersi troppo occupato della divulgazione del pensiero psicoanalitico né di aver creato movimenti significativi per riuscire a rendere più comprensibile o a favorire l’espansione del pensiero greeniano.

«La divulgazione non mi interessa, non mi soffermo sulle mode. Non ho scritto best seller ma i miei libri hanno una continuità, vendono regolarmente. Non vorrei però essere frainteso. Faccio un esempio. Durante una mostra, Picasso fu avvicinato da un critico che gli disse di non capire la sua pittura. Al che il maestro rispose “Capite il cinese?” “No”, replicò l’altro. “Bene, per capire il cinese bisogna studiarlo” concluse Picasso.

 Ritornando alla «verità», si potrebbe pensare che ci sia sempre un equilibrio provvisorio…

«Freud aveva un enorme interesse, un grande amore, per la verità. Ognuno è alla ricerca di una propria verità. Eppure, tutto quello cui possono giungere paziente e analista altro non è che un’approssimazione su cui possono mettersi pressappoco d’accordo».

 Invecchiando si diventa più sinceri? forse muta il rapporto con le proprie verità?

«Nulla di straordinario. Quando si invecchia si diventa meno abili a dissimulare, a nascondere. Anche le difese sono più visibili. Ci sono, ovviamente, anche persone che continuano a illudersi. Per me è meglio affrontare la verità e dirla, anzi, proclamarla prima che qualcun altro la dica per te! In fondo, essere vecchi è quando le difese abituali non funzionano più bene e si mostra, invece, quello che si vorrebbe nascondere».

Lei rimane, a dispetto del tempo che passa, un uomo appassionato al suo lavoro, alle sue idee.

 «Sono soprattutto sensibile alle persone che rimangono vive, che continuano ad appassionarsi alle cose. Ho avuto quattro figli, una vita normale, nel senso conforme alla mia personalità. E continuo a essere appassionato, pur senza aver fatto cure di ringiovanimento, faccio a malapena un po’ di ginnastica! Ho combattuto per le mie idee e ho scelto, sino dagli inizi, di essere un analista a tempo pieno, dedicando a questo molto del mio tempo. Gli psicoanalisti sono artigiani, lavorano a cottimo e vivono veramente ed esclusivamente del prodotto del loro lavoro e non di quello di qualsiasi altro. È vero che ho scritto libri, tanti, perché, dopo la pesante costrizione del lavoro psicoanalitico, il lavoro intellettuale ha qualcosa di distensivo. Oggigiorno, invece, fra gli psicoanalisti ci sono molti burocrati: persone che fanno il mestiere ma che non sono certo appassionati. È facile assumere l’aria di psicoanalista, invece, è difficile esserlo. Per lo più si tratta di aggiungere una piuma al cappello!»

 Pensa che si potrà curare questo male della contemporaneità?

 «Curare? Ma lei scherza! Loro sono contenti: è il modello generale».

Scrivi commento

Commenti: 0