Thanopulos: “La ferita della soggettività e il tatuaggio”

di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.info, 1 agosto 2014

Vin Los è un cana­dese di 24 anni. Si è riem­pito le brac­cia, il petto, il volto e il cra­nio con parole tatuate: «Fame» (fama), «Guilty» (col­pe­vole), «Ico­nic Face» (fac­cia ico­nica), «Hot» (caldo), «Scream» (grido) e così via. In un’intervista a Vice Maga­zine dichiara che ha ini­ziato a tatuarsi per avere un impatto sugli altri, diven­tare un’immagine da guardare.

Vin, che lavora in un super­mer­cato, ha scelto le parole che rico­prono il suo corpo su You­Tube ascol­tando le can­zoni di mag­gior suc­cesso. È affa­sci­nato dal pro­cesso che crea cose cele­bri: da per­so­naggi come Mari­lyn Mon­roe a pro­dotti com­mer­ciali come Star­bucks. Vuole far rea­liz­zare i sogni di tutti e dare fama a per­sone nuove togliendo il mono­po­lio del potere agli stu­pidi e noiosi che lo deten­gono attual­mente. Vor­rebbe morire: un giorno ha bevuto «un migliaio di caffè» per otte­nere un effetto potente. È deluso dai suo geni­tori che si rifiu­tano di vederlo, scioc­cati dal suo nuovo aspetto. Pensa che se fosse stato sfi­gu­rato in un inci­dente il rifiuto non ci sarebbe stato: il suo sfi­gu­rarsi sarebbe stato invo­lon­ta­rio e non una tra­sfor­ma­zione volon­ta­ria di sé stesso.
Il discorso di Vin può sem­brare far­ne­ti­cante: andrebbe visto, invece, come impasse senza riscatto pos­si­bile di un ten­ta­tivo di eman­ci­pa­zione dall’insensatezza che per­vade un’organizzazione sociale fina­liz­zata alla ripro­du­zione di rela­zioni di puro cal­colo che stanno minando dall’interno le rela­zioni di scam­bio reale. L’emancipazione non rie­sce a tro­vare uno sbocco per­ché il nemico che si attacca all’esterno è un ospite colo­niz­za­tore del pro­prio mondo interiore.

L’uomo che è diven­tato bacheca di parole nelle quali pezzi di slo­gan si dis­sol­vono nel non senso, ha perso il suo posto in un mondo diven­tato fiera delle appa­renze. Il modo con cui cerca di ritro­varlo assog­getta ancora di più la sua denun­cia, che lo sfi­gura, al pri­mato di una visi­bi­lità dis­so­ciata dal sen­tire pro­fondo che ha reso alie­nante l’esperienza del vedere e dell’essere visti.
Esporre la pro­pria sog­get­ti­vità a uno sguardo che non cerca nel suo oggetto la verità del suo desi­de­rio bensì l’eccitazione neces­sa­ria per non essere spento, com­porta il rischio di una ferita intol­le­ra­bile, mor­tale. Restare desi­de­ranti è impresa impos­si­bile per­ché lo sguardo che vede solo ciò che lo eccita uccide ciò che è vivo. Il corpo di Vin Los rivela, nel ten­ta­tivo di argi­narla, la vio­lenza che sog­giace alla tra­sfor­ma­zione, sup­po­sta volon­ta­ria, del corpo del desi­de­rio in una tela tatuata: imma­gini prive di sub­strato emo­tivo con cui si cerca di fis­sare sulla pelle, con­te­nen­dole, le inci­sioni pro­fonde che una lin­gua disu­mana (priva di capa­cità di coin­vol­gi­mento) deter­mina nella carne viva del sog­getto.
La vio­lenza pene­trante (che Kafka per primo ha intuito) del discorso ano­nimo che sot­tende un vedere che non sente, non si può respin­gere, una volta che si è presi nei suoi arti­gli, che facen­dola pro­pria per esi­birla come inci­sione che resta in super­fi­cie. Si evita di essere uccisi con­ver­tendo la vita che scorre nelle pro­prie vene in un vei­colo del discorso uccisore.

Il tatuag­gio come seconda pelle, che affligge i nostri tempi, non è una regres­sione verso un lin­guag­gio espres­sivo arcaico ma lo sra­di­ca­mento da esso. L’incombere della morte psi­chica sulla vita è così forte che si pre­fe­ri­sce fer­mare il tempo inteso come tra­sfor­ma­zione invo­lon­ta­ria, patita di sé nell’incontro con l’alterità che diventa aper­tura al mondo. Più si espande lo spa­zio del tatuag­gio più il tempo è sospeso per­ché la dif­fu­sione del vis­suto in super­fi­cie sosti­tui­sce il suo movi­mento tra­sfor­ma­tivo profondo.

http://ilmanifesto.info/la-ferita-della-soggettivita-e-il-tatuaggio/

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