Thanopulos: “L’amicizia è il sentimento di appartenenza”

di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.info, 27 giugno 2014

È tempo di mon­diali di cal­cio: si rispol­ve­rano le ban­diere nazio­nali e torna forte il richiamo alle «potenze oscure»” del sen­ti­mento di appar­te­nenza come le ha defi­nite Freud in occa­sione di un suo discorso in un’importante asso­cia­zione ebraica vien­nese. Tifare per una squa­dra che non è quella del pro­prio paese è incon­ce­pi­bile ancor più che inam­mis­si­bile per­fino per i più con­vinti «cit­ta­dini del mondo». Il sen­ti­mento di appar­te­nenza non era un valore scon­tato per Hanna Arendt che in cir­co­stanze emo­ti­va­mente molto dif­fi­cili non ha rinun­ciato all’indipendenza dei suoi sen­ti­menti nel for­mu­lare un giu­di­zio che le fu aspra­mente rim­pro­ve­rato come espres­sione di orgo­glio intel­let­tuale. Nel 1961 Arendt seguì il pro­cesso Eich­mann a Geru­sa­lemme come cor­ri­spon­dente di «The New Yor­ker». Alcune sue affer­ma­zioni ali­men­ta­rono grandi pole­mi­che e cri­ti­che che la segui­rono per il resto della sua vita. In par­ti­co­lare non le fu mai per­do­nato l’aver affer­mato che, data la col­la­bo­ra­zione (ignara delle con­se­guenze) delle auto­rità ebrai­che con gli ster­mi­na­tori nazi­sti,
una metà delle vit­time dello ster­mi­nio si sarebbe sal­vata se quello ebraico fosse stato un popolo disor­ga­niz­zato. Né servi certo a miglio­rare la sua posi­zione l’opinione da lei espressa (ripren­dendo il punto di vista di Karl Jaspers) che un tri­bu­nale israe­liano non era legit­ti­mato a giu­di­care un cri­mine che, ben­ché per­pe­trato sul corpo del popolo ebraico, era un atten­tato con­tro la diver­sità umana e di con­se­guenza un cri­mine con­tro l’umanità che poteva essere giu­di­cato solo da un tri­bu­nale inter­na­zio­nale.
Il tempo non ha can­cel­lato lo scan­dalo: il bel­lis­simo film che Mar­ga­re­the Von Trotta ha dedi­cato alla fac­cenda è pas­sato quasi sotto silen­zio (in Ita­lia la sua distri­bu­zione è stata clan­de­stina) eppure le que­stioni che Arendt allora sol­levò sono di un’attualità scon­vol­gente. La col­la­bo­ra­zione pre­te­rin­ten­zio­nale (la schia­vitù volon­ta­ria) degli oppressi con la tiran­nia (la norma che si fa ecce­zione dalla vita) e il carat­tere imper­so­nale (banale) di quest’ultima, che aumenta a dismi­sura il suo poten­ziale distrut­tivo, stanno man­te­nendo aperta la strada a un gigan­te­sco fal­li­mento della civiltà di cui lo ster­mi­nio fu il primo (e in parte ina­scol­tato) allarme. E l’omologazione dei vis­suti e dei sen­ti­menti (la deriva più peri­co­losa del con­for­mi­smo cul­tu­rale) è un attacco alla dif­fe­renza non meno insi­dioso (per il futuro dell’umanità) del geno­ci­dio dei diversi.
L’accusa più inge­ne­rosa rivolta a Arendt fu di aver ferito i sen­ti­menti del suo popolo, sacri­fi­can­doli al suo nar­ci­si­smo. In una delle più intense scene del film di Von Trotta la pro­ta­go­ni­sta è a Geru­sa­lemme al capez­zale di un suo vec­chio amico morente. L’amico le rin­fac­cia di non amare il loro comune popolo. Lei gli risponde: “Ma tu sai che non amo i popoli, amo i miei amici”.
Alle sue radici l’appartenenza non rico­no­sce la dif­fe­renza e non con­tem­pla l’esistenza dell’altro. L’amore ispi­rato dalla comu­nanza delle ori­gini è amore di sé: sen­ti­mento nar­ci­si­stico che rifugge il senso di man­canza, riflesso della mol­ti­tu­dine in una matrice indif­fe­ren­ziante. L’amore per gli amici sosti­tui­sce l’appartenenza con l’affinità, la sen­si­bi­lità con­di­visa che rende acces­si­bili le dif­fe­renze. L’amicizia è l’incontro tra il mede­simo e la diver­sità, il luogo in cui la ten­sione tra la con­di­vi­sione e la riva­lità tra­sforma l’estraneità in ter­ri­to­rio di espan­sione della nostra espe­rienza. Gli amici tra­scen­dono l’appartenenza a un paese, a un popolo, a una tifo­se­ria: non por­tano ban­diere, non can­tano inni nazio­nali, sono com­pa­gni nell’esilio che ci rivela il mondo.

http://ilmanifesto.info/lamicizia-e-il-sentimento-di-appartenenza-2/

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